Big Oil europee, solo lo 0,3% dell’energia prodotta da rinnovabili

Uno studio commissionato da Greenpeace mostra come per le grandi aziende dell'energia in Europa le rinnovabili siano ancora un miraggio

Giovanni Cirone
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Giovanni Cirone
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«L’energia prodotta dalle maggiori aziende petrolifere europee è fatta da rinnovabili solo per lo 0,3% nel 2022»: parola di Greenpeace Europa centrale e orientale (CEE). In questo agosto bollente, irrompe e fa rumore questa irrisoria percentuale, divulgata in “The Dirty Dozen: The Climate Greenwashing of 12 European Oil Companies”. È un rapporto di 110 pagine, dal titolo cinematograficamente evocativo, steso da Steffen Bukold, esperto di logistica, trasporti ed energia, fondatore nel 2008 di EnergyComment.

Da Amburgo, il suo ufficio di ricerca e consulenza svolge da oltre 15 anni attività di analisi comparativa, interdisciplinare ed internazionale, in vari settori: dal petrolio al gas, dai costi dell’energia all’idrogeno. In questo caso, la sporca dozzina presa in esame è composta da compagnie petrolifere europee: sei (tra le più grandi del mondo) con Shell, TotalEnergies, Bp, Equinor, Eni, Repsol, e sei (tra quelle con un ruolo centrale nella transizione energetica per mercati nazionali europei) con Omv, Pkn Orlen (dallo scorso luglio, solo Orlen), Mol Group, Wintershall Dea, Petrol Gruppo, Ina Croatia. Dunque, dodici compagnie: ma non tutte sullo stesso piano.

2022: l’anno d’oro dei profitti delle Big Oil

Lo studio commissionato da Greenpeace chiarisce subito come, in termini di vendite per il 2022 (fonte Company reports), i rapporti di forza parlino chiaro. Ad esempio, con 132,5 miliardi, Eni risulta quinta. Dal primo al quarto posto ci sono: Shell (381,3 miliardi), Total Energies (281), Bp (241,4), Equinor (150,8). Dal sesto posto della spagnola Repsol (78,7), si precipita poi al dodicesimo piazzamento di Ina Croatia (4,9).

Ebbene – ci si chiede – su transizione energetica e contenimento delle emissioni a tutela del clima, qual è il contributo di queste compagnie? Domanda interessante, visto che lo scorso 2022 è stato l’anno record di profitti per molte Big Oil. Domanda che schiude la porta a diverse risposte, vista l’analisi di bilanci e attività di queste dodici compagnie.

Dai ricavi agli investimenti sull’energia, un rapporto di 2 a 1

Salta così all’occhio l’aumento dei profitti che, in media, segna un +75% nel 2022, a fronte di un’accelerazione dei ricavi che si attesta attorno al 70%. Gli investimenti, tuttavia, lievitano solo del 37% e, sostanzialmente, si rivolgono in larghissima parte al fossile.

Sempre in media, ci si attesta al 92,7%, perpetrando la strategia dell’investimento as usual, ovvero petrolio e gas fossile. Uno striminzito 7,3% viene riservato per la produzione di energia sostenibile e per soluzioni a basse emissioni di biossido di carbonio. A fronte, poi, di ridondanti campagne di marketing per affermare il posizionamento green, la somma delle reali misure messe in campo dalla dirty dozen smentisce i claims. Su produzione di energia da vento e/o sole, infatti, la media di ferma ad appena lo 0,3% del volume di energia, a fronte di un 99,7% prodotto con petrolio e gas.

Il lasciapassare dei CCS e il Net zero come obiettivo da mancare

Dove finisce allora quell’aurea di sostenibilità, bene o male normata, ma – a quanto pare – regolata soprattutto dal mercato e dalla finanza? Le Big Oil sanno che i migliori lasciapassare hanno sigla e nome, CCS (Carbon Capture and Storage) e compensazioni di CO2: in breve, catturare anidride carbonica e acquistare carbon credit sui mercati. E pensare – sostiene la ricerca di Steffen Bukold – che la maggior parte dei colossi dell’energia si è impegnata ad azzerare le emissioni nette (la cosiddetta Net zero) entro il 2050. Sempre più, invece, ecco che quell’asticella viene interpretata al ribasso.

Così, e in buona parte, le emissioni derivanti dalla vendita di petrolio e gas (Scope 3) sono ignorate o ridefinite: dalla riduzione delle quantità di emissioni, si passa alla riduzione dell’intensità. Si palleggia sul rinvio della maggior parte della decarbonizzazione fino a dopo il 2030, mentre le Big Oil continuano a pianificare una massiva strategia di produzione di petrolio e gas almeno fino a quell’anno. Su tutto aleggia una grande azione di greenwashing: possibili definizioni distorte di termini e numeri, presentazioni fuorvianti dei risultati, occultamento di informazioni nelle note a piè pagina, altre trovate di marketing.

Eni sembra non capire il cuore del problema

Forse perché in “The Dirty Dozen” si sostiene che, nel 2022, Eni ha registrato «un utile operativo adjusted pari a 20,4 miliardi di dollari, più che raddoppiato rispetto all’anno precedente», il cane a sei zampe ha replicato. Ma sembra non aver compreso su quali basi venga valutata «l’adeguatezza economica dell’allocazione degli investimenti, una decisione basata su una complessità di elementi, tra i quali un imprescindibile mantenimento della solidità finanziaria dell’azienda, che se venisse a mancare rischierebbe di compromettere l’intera strategia di transizione energetica».

Il punto centrale evidenziato dal rapporto, e che costituisce la parte allarmante del documento, è il fatto che la produzione da fonti rinnovabili sia ancora irrisoria. E benché Eni sciorini numeri sui suoi investimenti (ancorché sottolineando la sua necessità di creare ricchezza per gli azionisti), su progetti e impegni, quello 0,3% complessivo delle dodici compagnie non viene contestato nel merito. Ma c’è di più: anche qualora non fosse 0,3 ma 0,5 o 0,9 o 2%, cambierebbe molto poco. La traiettoria che stiamo seguendo è totalmente incompatibile con gli obiettivi fissati dalla comunità internazionale ovvero limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali.

Per centrare gli obiettivi climatici non si può più indugiare sull’energia rinnovabile

La scienza ha spiegato che, per non superare tale soglia, occorre smettere nel più breve tempo possibile di bruciare carbone, petrolio e gas. Limitando lo sfruttamento di dei combustibili fossili già estratti e lasciando sottoterra tutte le altre riserve note. Dalle compagnie del settore dell’energia, quindi, l’unica cosa sensata che ci si possa attendere è un gigantesco e immediato piano di transizione verso le energie pulite e rinnovabili.

A Greenpeace, comunque, Eni promette di spiegare «in modo dettagliato» le proprie ragioni in tribunale. Al contempo, si aspetta un riscontro sull’istanza di mediazione conseguente alle «dichiarazioni diffamatorie» nei propri confronti. In ogni caso – chissà – magari potrebbe gettare luce sulle cifre riportate nel report di Steffen Bukold, e smascherarlo per le sue fandonie sulla «sporca dozzina».