«Inefficaci»: così la Science Based Targets initiative boccia i carbon credits

La Science Based Targets initiative lancia un messaggio chiaro alle aziende: la decarbonizzazione è una cosa seria, comprare carbon credits non basta

Spesso i carbon credits vengono erogati a fronte di progetti per la tutela o il ripristino delle foreste © GettyTim82/Unsplash

Esistono strumenti finanziari sui quali, ormai da due decenni, le aziende di tutto il mondo fanno leva per realizzare i propri piani di transizione climatica. Sono gli arcinoti carbon credits, in italiano crediti di carbonio (o, più correttamente, di CO2). Peccato solo che, nella maggior parte dei casi, siano «inefficaci». Inefficaci a tal punto da allontanare le imprese da quello che dovrebbe essere il loro reale obiettivo: non compiacere investitori, autorità e clienti, bensì mitigare il proprio contributo alla crisi climatica. A scrivere la parola fine sulla faccenda è la principale autorità internazionale che definisce gli standard per la decarbonizzazione del settore privato: la Science Based Targets initiative (SBTi).

Il terremoto dei carbon credits scuote la Science Based Targets initiative

I carbon credits sono certificati di riduzione delle emissioni che possono essere scambiati sul mercato. Di fatto, quindi, sono strumenti finanziari. Ciascuno di essi equivale a una tonnellata di CO2 che un soggetto ha evitato di emettere in atmosfera attraverso, per esempio, un progetto legato all’efficienza energetica o allo sviluppo delle rinnovabili; oppure che ha rimosso tramite la conservazione e il ripristino degli ecosistemi (tipicamente, delle foreste).

Il tema dei carbon credits, negli ultimi mesi, si è rivelato a dir poco delicato per la Science Based Targets initiative. Oggi, i suoi standard li ammettono solo per l’“ultimo miglio”, cioè per le emissioni residue inevitabili o fino al 10% del totale. Ad aprile, però, il consiglio di amministrazione ha annunciato l’intenzione di autorizzarne l’uso anche per conseguire gli obiettivi di riduzione Scope 3. Cioè per sforbiciare le emissioni che l’azienda genera non a causa dei suoi stabilimenti o dell’energia che acquista, bensì indirettamente, lungo la sua catena del valore: dall’approvvigionamento delle materie prime all’uso dei prodotti.

Un’iniziativa simile, però, avrebbe autorizzato qualsiasi impresa ad abbattere artificialmente la stragrande maggioranza delle proprie emissioni. Di fatto, bastava pagare. I tecnici e gli scienziati che lavorano al programma si sono ribellati. E in estate il Ceo Luiz Amaral ha annunciato le proprie dimissioni «per motivi personali».

I carbon credits non bastano: la decarbonizzazione dev’essere reale

All’indomani dello scandalo, la Science Based Targets initiative ha intrapreso un corposo processo di revisione degli standard a cui le aziende si devono attenere per azzerare le emissioni. Gli esperti, dunque, hanno passato in rassegna la letteratura scientifica sull’argomento. Scoprendo che gli studi di maggiore qualità dimostrano che «vari tipi di carbon credits sono inefficaci nel fornire i risultati di mitigazione previsti». Il fatto che le aziende li usino per compensare le proprie emissioni espone a «chiari rischi», perché può addirittura ostacolare la transizione verso il net zero o diminuire la finanza per il clima. Come chiarisce il chief technical officer della Science Based Targets initiative, Alberto Carrillo Pineda, questi strumenti finanziari possono comunque avere un valore, ma solo «se utilizzati nel modo giusto e anche se incentivano i giusti risultati».

Decine e decine di pagine fitte di dati e bibliografia arrivano a dire, in sostanza, che la decarbonizzazione va fatta per davvero. L’acquisto di crediti di CO2 non può sostituire gli interventi reali per abbattere le emissioni. Potrebbe sembrare una tautologia ma, per anni, le grandi imprese hanno provato a illudersi (e illuderci) che si potesse aggirare. Si sono aggrappate a questi e altri escamotage per portare avanti il loro business, mascherandone l’impatto. Anche quando era dichiaratamente incompatibile con il futuro del clima e del nostro Pianeta (non è un caso se il primo acquirente di compensazioni di CO2 nel 2023 è stato il colosso petrolifero Shell). Al di là dei tecnicismi degli standard, sui quali la SBTi continuerà a lavorare, è questa la grande verità che emerge da questi documenti. Chissà se le grandi corporation che dominano il nostro sistema economico si decideranno, una volta per tutte, ad accettarla.