Argentina, il Paese degli 8 default. Il debito è una maledizione eterna
Dal primo prestito londinese al maxi-piano del FMI: il debito argentino è un'epopea infinita. Con periodiche bancarotte e perenni illusioni. Che ora divorano il presidente Macrì
Alla fine del primo trimestre del 2019 il debito totale (pubblico e privato) dell’Argentina – Stato, famiglie, società finanziarie e imprese – ha raggiunto quota 127,1% del Pil. Un incremento di oltre 34 punti percentuali nello spazio di 12 mesi che rappresenta un primato assoluto. Nello stesso periodo, nessun altro Paese ha sperimentato un simile peggioramento nel rapporto tra le pendenze complessive e il valore dell’economia nazionale.
La notizia, diffusa nelle scorse settimane dall’Institute of International Finance, contribuisce a creare ulteriore sfiducia sulle prospettive della nazione. A metà luglio il Fondo Monetario Internazionale ha chiesto a Buenos Aires uno sforzo ulteriore sulla stretta fiscale ipotizzando, al tempo stesso, una significativa recessione per l’anno in corso: -1,3%.
Premesse che certo aiutano a comprendere la clamorosa débacle del presidente in carica, il liberalista Mauricio Macrì, alle primarie del 12 agosto: appena il 33% dei voti contro il 47% dello sfidante Alberto Fernandez, alleato con la ex inquilina della Casa Rosada Cristina Fernandez de Kirchner. Un simile risultato, se dovesse confermarsi il 27 ottobre alle presidenziali, vorrebbe dire sconfitta al primo turno.
L’esito ha atterrito i mercati che avevano trovato in Macrì un loro (ennesimo) uomo fedele: la Borsa di Buenos Aires è andata giù di 38 punti percentuali. E le probabilità di un default entro 5 anni sono salite dal 49% al 75%. E per il Paese latinoamericano sarebbe la nona volta. Ma non sarebbe certo inaspettato per un paese afflitto da un debito monstre che è ormai una maledizione.
Debito e recessione alla vigilia del voto
Il prestito complessivo accordato dal Fondo all’Argentina ammonta a 57 miliardi di dollari. L’esborso più elevato mai concesso ad un Paese a rischio default. Un intervento resosi necessario dopo l’ennesimo deragliamento della locomotiva bonaerense, spinta fuori dai binari della stabilità sotto i colpi di una crescente inflazione esasperata in modo particolare dall’apprezzamento del dollaro. Ma il deterioramento delle condizioni macroeconomiche globali – tradotto: la tendenza ciclica degli Stati Uniti ad esportare inflazione in corrispondenza con il rialzo dei tassi da parte della FED – non spiega da solo l’aggravarsi della crisi.
Ad incidere, in realtà, è anche, se non soprattutto, il conclamato fallimento della dottrina di Mauricio Macri. Il presidente attuale aveva promesso una nuova rinascita accompagnata dal grande ritorno nel mercato del debito. Oggi, a giudicare dalle elezioni primarie appena svolte, pare chiaro che lo stigma della crisi colpisce anche lui. Non diversamente, insomma, dalla maggioranza dei suoi predecessori.
Navi, sterline e otto default
Gli argentini, dice un vecchio adagio, discendono dalle navi. Per molti è un motivo d’orgoglio, per qualcuno un luogo comune vecchio e fastidioso vista la sua implicita tendenza a collocare gli europei al centro della storia a discapito dei pueblos originarios. Quelli, per intenderci, che italiani e spagnoli insistono a chiamare indios rimarcando un imbarazzante errore geografico vecchio di 500 anni. Eppure una cosa è certa: pochissime altre nazioni, nel corso della loro storia, hanno saputo trovare proprio nelle imbarcazioni un così intenso filo conduttore.
Sono state le navi, all’alba dell’indipendenza, a creare il debito estero argentino quando, nel 1824, l’amministrazione di Buenos Aires chiese un prestito da 1 milione di sterline alla banca londinese Baring Brothers per finanziare la costruzione del porto prima di dichiarare default tre anni più tardi. È stato l’affondamento di un incrociatore, nel maggio 1982, a segnare, per lo meno simbolicamente, la sconfitta nella guerra delle Falkland e, con essa, l’imminente fine della dittatura che avrebbe chiuso il periodo di massima espansione del debito nazionale con tanto di sospensione dei pagamenti delle pendenze con estero (oggi si direbbe selective default) nel medesimo anno.
Ed è stato il surreale sequestro dalla nave scuola Libertad nel porto di Tema, in Ghana, ad aprire la strada nel 2012 alla successiva sconfitta nella battaglia legale con il fondo avvoltoio NML della Elliott Capital Management. Il preludio all’ottavo default della storia argentina. Ma retorica a parte, è bene non dimenticarselo, quella del debito albiceleste è soprattutto una prosaica storia di numeri.
La dittatura e l’inganno dei tassi
Un’analisi del Consejo Latinoamericano de Ciencias Sociales pubblicata nel 2008 e attualizzata al cambio dell’epoca ricordava come negli anni della dittatura militare il debito argentino sia passato dai 9,7 miliardi di dollari del 1976 agli oltre 45 del 1983. Ci si indebitava, allora, per finanziare le forze armate (10 miliardi di dollari secondo la Banca Mondiale) e per salvare le imprese private già indebitate di loro come Celulosa Argentina (1,5 miliardi), Cogasco (1,35) e Autopistas Urbanas (950 milioni). E ci indebitava soprattutto perché era conveniente. Negli anni ’70 infatti la presenza di bassi tassi di interesse sembra dare ragione al ministro delle finanze José Martínez de Hoz e alla sua strategia, approvata, per altro, da FMI e Banca Mondiale.
Ma quando a partire dai primi anni ’80 i tassi vanno in orbita lo schema diventa insostenibile. Si fa debito per ripagarne altro e il deficit si allarga. Nel 1989 la deuda externa (il debito estero) ha raggiunto i 57 miliardi di dollari, una cinquantina in più rispetto al ’76. Il Paese, per altro, è in buona compagnia. Uno studio del Consejo Episcopal Latinoamericano ricorda come le 22 nazioni del Subcontinente abbiano visto il proprio debito passare dai 253 miliardi di dollari del 1980 ai 513 del 1993. Nel 1999 la cifra sfonderà quota 700 miliardi. Dieci anni prima, con un’inflazione annuale al 5000%, Buenos Aires aveva fatto default sui pagamenti interni.
Da Menem al default 2001
Quello delle presidenze di Carlos Menem (1989-99) passerà alla storia come il decennio delle privatizzazioni. Ferrovie, linee aeree, telecomunicazioni, industria pesante, petrolio: tutto, ma proprio tutto, viene ceduto ai privati per la cifra totale, secondo i non pochi critici decisamente troppo bassa, di 9,8 miliardi di dollari. Una politica che fa tendenza visto che, nel corso del decennio, il continente latinoamericano arriverà a compensare il 55% del valore delle privatizzazioni del Pianeta.
Ma il peggio deve ancora venire. Per frenare l’iperinflazione viene varato il piano di convertibilidad: un peso, si stabilisce per legge, equivale a un dollaro. Si può fare la spesa in moneta locale o in biglietti verdi, si possono cambiare pesos in valuta americana, ci si può sentire, insomma, più ricchi. In quel tranello, benedetto dal FMI, cadono in molti ma non le banche che alzano i tassi a livelli vertiginosi. Alla fine del 2001, l’Argentina è di nuovo in bancarotta. Il debito è salito a 130 miliardi.
Kirchner Vs Elliott
L’era dei Kirchner (Néstor, 2003-07, e Cristina Fernández, 2007-15) si apre con il programma di ristrutturazione dei bond e con il rilancio dell’economia nazionale generato dal boom delle materie prime. E prosegue, tra molte polemiche, con la preoccupante crescita dell’inflazione. L’agenzia statistica nazionale (Instituto Nacional de Estadística y Censos, Indec) diffonde cifre rassicuranti ma sempre meno credibili. Nel frattempo infuria la battaglia legale con il fondo Elliott.
La società statunitense guida da anni un manipolo di creditori dissidenti (il 7% del totale) che hanno rifiutato l’accordo di ristrutturazione (sostituzione dei bond in default con nuovi titoli per un valore complessivo pari a circa 1/3 di quello originale). Elliott, che ha rastrellato le obbligazioni a prezzi scontatissimi sul mercato, trascina Buenos Aires in tribunale e nel 2012 ottiene una sentenza favorevole dal giudice della corte distrettuale di New York, Thomas Griesa. I creditori, dice il tribunale, hanno diritto a ricevere il saldo nominale maggiorato degli interessi. E a quel punto l’Argentina dichiara nuovamente bancarotta. Per l’ottava volta nella sua storia.
Con Macri gli speculatori guadagnano il 1200%
Quando nel marzo del 2016 il Senato argentino approva l’accordo definitivo da quasi 2,3 miliardi di dollari con gli speculatori, che garantisce a questi ultimi un profitto del 1200% sull’investimento iniziale, il neo presidente Mauricio Macri annuncia l’avvio di una nuova era. L’Argentina, spiega, ha riacquistato credibilità e ora può tornare con fiducia sui mercati. Un po’ troppa, a dire il vero, visto che nello spazio di due anni Buenos Aires arriverà a collocare sulla piazza oltre 100 miliardi di dollari di titoli.
L’inflazione però non se ne va e il circolo vizioso riprende. Così, con il peso in caduta libera e il costo del denaro che passa dal 27,25% al 40% in otto giorni (ma si arriverà fino al 60% di lì a poco) anche l’ex presidente del Boca è costretto a sollecitare il soccorso del FMI. È la tarda primavera del 2018, il resto è cronaca. Il programma prosegue, le elezioni incombono. Povertà e disoccupazione sono in ascesa, l’inflazione è al 40%. I sogni di grandeur del presidente uscente sono già svaniti. «Non mi abbandona. Mi sta sempre accanto l’ombra di esser stato un disgraziato» scriveva Borges. Sono passati quarantatré anni e quattro default.