Debito e inflazione. L’Argentina è di nuovo nei guai

La crisi degli emergenti trova un nuovo epicentro nell’Argentina di Mauricio Macri. Debito e svalutazione riaccendono le paure del passato

Matteo Cavallito
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Matteo Cavallito
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«Il Banco Central de la República Argentina continuerà ad operare intervenendo nel mercato dei cambi con tutti i mezzi a sua disposizione». Così la massima autorità monetaria di Buenos Aires in una nota diffusa lo scorso 4 maggio. È la svolta, almeno nella retorica. Todas sus herramientas come whatever it takes, la dottrina Mario Draghi in versione rioplatense. Come dire: quando il gioco si fa duro la banca centrale comincia a giocare, anche se le similitudini, disgraziatamente, finiscono qui. Perché un conto è calmare i mercati dall’alto dell’Eurotower, acquisti di massa dei titoli sovrani e tanti saluti alla speculazione. Un altro è farlo dal basso di 60 miliardi di dollari di riserve. Troppo poco – e ci mancherebbe altro – per arrestare una svalutazione galoppante che porta in sella le peggiori paure del passato.

Mercati in subbuglio

Ricapitolando: nello spazio di una settimana e un giorno, i tassi di interesse sono passati dal 27,25% al 40%, un incremento di 1.275 punti base pensato con l’obiettivo di frenare il declino del peso dopo che quest’ultimo aveva fatto registrare il suo minimo storico nel cambio con il dollaro. Nel mirino della banca centrale c’è un’inflazione programmata annuale al 15%, un traguardo che appare ancora molto lontano. Dopo un’estemporanea boccata di ossigeno, infatti, la valuta argentina ha ricominciato a deprezzarsi sul biglietto verde, un segnale della diffusa sfiducia degli operatori. 

Martedì 8 maggio, dopo che la Banca centrale aveva bruciato quasi 5 miliardi di dollari di riserve in una settimana nel tentativo di frenare la caduta del peso, il presidente argentino Mauricio Macri ha annunciato l’intenzione di chiedere una nuova linea di credito al FMI che, stima Bloomberg, dovrebbe viaggiare sui 30 miliardi di dollari.  I negoziati hanno preso il via il giorno successivo e, sostiene ancora l’agenzia, potrebbero andare avanti per oltre un mese.

Riecco la “curva inversa”

Le perplessità del mercato non sorprendono, come evidenzia ovviamente il comportamento delle obbligazioni. Vale per i titoli a rapida scadenza, naturalmente, che vedono crescere i rendimenti offerti sul mercato secondario (tradotto: valgono sempre meno) esacerbando il fenomeno endemico della curva inversa (tradotto: il rischio a breve termine – in termini di inflazione e di probabilità di default – supera di gran lunga quello di lungo periodo).

Ma vale anche per i finanziamenti di lungo, lunghissimo orizzonte: nel giugno dello scorso anno, l’Argentina ha venduto 2,75 miliardi di dollari di bond a 100 anni accordando in asta un interesse del 7,125%. Il 3 maggio il rendimento sul titolo scambiato sul mercato è salito all’8,199%, il valore più alto di sempre.

Argentina: dal default alla linea Macri

Nell’aprile del 2016, il senato argentino ha ratificato l’accordo raggiunto dal governo con i fondi “avvoltoio”, la pattuglia dei creditori guidata dal distressed statunitense (ma di base alla Cayman) NML, un veicolo offshore di proprietà della Elliot Management, la società del finanziere americano Paul Singer.

L’intesa, fortemente voluta da Macri, ha consentito al fondo USA di incassare 2,28 miliardi di dollari, pari al 1.200% circa dell’investimento iniziale (177 milioni), permettendo a Buenos Aires di rientrare a pieno titolo sui mercati internazionali. Da allora, ha ricordato il Financial Times, l’Argentina ha ripreso a indebitarsi con grande disinvoltura collocando bond sovrani per oltre 100 miliardi di dollari.

Inflazione permanente

La lunga era Kirchner, per contro, si è caratterizzata per la linea dura tenuta contro i creditori ma le ombre non sono certo mancate. L’economia post default ha beneficiato del boom delle materie prime conoscendo una ripresa memorabile, ma le successive correzioni al ribasso hanno impattato sulla crescita. Il Paese si è trovato a fronteggiare un’altra ondata di inflazione alla quale il governo ha risposto minimizzando l’allarme e diffondendo dati sempre meno credibili.

Macri ha risposto con la linea delle liberalizzazioni e dei tagli alla spesa abolendo i controlli sui capitali (ovvero sugli acquisti di valuta estera), eliminando tasse e limiti sull’export e cancellando i sussidi statali che avevano garantito per anni tariffe pubbliche a basso costo per energia e trasporti. È stata proprio quest’ultima strategia a favorire ancora una volta la crescita dell’inflazione. In seguito la situazione è migliorata anche se il dato si è sempre mantenuto oltre i livelli di guardia.

Effetto USA

La crescita dell’indebitamento e le scarse prospettive di espansione economica impattano ora sul futuro dell’Argentina. La necessità di difendere il peso mette pressione alle riserve valutarie; la speranza di invertire la tendenza attraverso l’afflusso di investimenti si scontra con gli effetti diretti del rialzo dei tassi americani. È la vecchia storia del flight to quality, per dirla con l’ex ministro dell’economia di Buenos Aires, Axel Kicillof: quando il costo del denaro USA è basso, gli operatori puntano sui mercati periferici, alla ricerca di rendimenti adeguati. Ma quando i tassi salgono la tendenza si inverte, favorendo la fuga dei capitali dalle aree emergenti. Un fenomeno ad ampio raggio che in Argentina suscita ora ulteriori preoccupazioni.