Evasione fiscale, basta misure spot. Impariamo a usare più e meglio i dati
Le detrazioni per i pagamenti elettronici sono una falsa soluzione. Necessario invece consentire all'Agenzia delle Entrate di poter sfruttare al massimo le informazioni già esistenti
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha recentemente affermato che in occasione della prossima legge di bilancio verrà varato un piano contro l’evasione «mai visto prima». Gli elementi di questo piano sono tuttavia, ad oggi, ignoti, con l’eccezione delle affermazioni piuttosto generiche del programma di governo e dell’idea di un incentivo ai pagamenti elettronici che è affiorata nel dibattito negli ultimi giorni. Per essere tale, tuttavia, un piano non può consistere in un elenco di misure, ma deve essere articolato per obiettivi e strumenti partendo dall’analisi della situazione di partenza.
Cashback e "bonus Befana": le mosse del governo per "spingere" i pagamenti elettronici https://t.co/I8pmicKQrF
— Repubblica (@repubblica) September 30, 2019
Gli andamenti dell’evasione in Italia
Secondo le stime del MEF appena pubblicate in allegato alla NADEF il gap tra imposta teorica e imposta versata, che è un buon indicatore dell’evasione fiscale e contributiva, nel nostro Paese vale mediamente poco meno di 110 miliardi annui, di cui:
- circa 70 divisi circa a metà tra gap dell’Iva (36 miliardi) e dell’Irpef dei lavoratori autonomi e degli imprenditori individuali (34),
- poco meno di 20 tra gap dei contributi (11,1) e dell’Ires (8,6)
- e la parte restante dovuta in parti quasi eguali al gap dell’Irpef dei lavoratori dipendenti, a quello dell’Irap e al gap dell’Imu e delle altre imposte immobiliari.
2015, anno d’oro contro l’evasione
Guardando agli andamenti nel tempo, si nota come nel 2015 si verifichi una riduzione del gap assoluto stimato per tutte le principali fonti di evasione tributaria, ovvero l’Iva, l’Irpef del lavoro dipendente, l’Ires e l’Irap (complessivamente il calo è di circa 6 miliardi, una cifra non lontana dai 7 miliardi oggi cercati dal governo). Questa tendenza è confermata quando si prendono in considerazione, anziché i valori assoluti dei gap, la cosiddetta propensione al gap, ovvero il rapporto tra i valori assoluti dei gap e il gettito teorico.
La riduzione osservata nel 2015 probabilmente non è casuale. Il 2015 è l’anno in cui la legge di bilancio contiene diverse norme di contrasto dell’evasione attraverso l’aumento dell’efficienza dell’amministrazione fiscale intesa in senso lato, ovvero come l’insieme delle politiche fiscali non direttamente legate al livello di aliquota. In quell’anno entrano in vigore una serie di provvedimenti (lo split payment, il reverse charge) che riducono le opportunità di evasione dell’Iva, spostandone l’obbligo del versamento sulla pubblica amministrazione o sul contraente che presenta, dati alla mano, caratteristiche di maggiore affidabilità.
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Inoltre, il 2015 è anche l’anno in cui si comincia a ragionare in termini più ampi, impegnando l’Agenzia delle entrate a farsi promotrice di un’attività di promozione dell’adempimento spontaneo, attraverso l’analisi delle anomalie di comportamento che emergono dall’analisi dei dati e che, una volta portate alla conoscenza del contribuente (attraverso le cosiddette lettere per la compliance), lo invitano ad autocorreggere il proprio comportamento. Si trattava di un’inizio di attività di gestione del rischio di non adempimento (compliance risk management) basata su un uso attivo dei dati che rappresenta, secondo l’Ocse, la frontiera più avanzata delle amministrazioni fiscali dei paesi sviluppati.
Dopo il 2015 la direzione di marcia è cambiata, si è tornati a fare uso di condoni più o meno espliciti e la spinta all’efficientamento dell’amministrazione fiscale si è esaurita. Anzi, l’operatività dell’Agenzia delle Entrate è stata fortemente ridotta a causa della mancanza di volontà politica a rimediare alle conseguenze di una sentenza della Corte costituzionale che ha sancito l’illegittimità delle procedure utilizzate dall’Agenzia stessa per l’attribuzione degli incarichi dirigenziali. Si è quindi avuta una progressiva fuga di personale dall’Agenzia delle Entrate al settore privato.
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Riorganizzare l’amministrazione finanziaria
Il primo passo da compiere è dunque il ripristino di livelli di funzionalità minima dell’Agenzia delle Entrate, che è il cuore pulsante dell’azione di contrasto dell’evasione. Nel farlo, tuttavia, si dovrebbe tenere conto dell’esigenza di sviluppare quest’azione non utilizzando solamente i tradizionali strumenti repressivi (i controlli) ma anche le attività di promozione della compliance che, idealmente, si dovrebbero svolgere nella fase precedente alla dichiarazione.
La fase pre-dichiarativa
Si tratta, in pratica, di utilizzare i dati che l’Agenzia delle entrate oggi possiede in tempo quasi reale (ad esempio: quelli della fatturazione elettronica) per interloquire con il contribuente (e con i suoi consulenti) nella fase pre-dichiarativa. L’Agenzia deve fare sentire la sua presenza facendo sapere al contribuente (con dialoghi diretti, con comunicazioni individualizzate, attraverso la precompilazione di parti della dichiarazione) di possedere una serie di dati oggettivi che quindi rendono poco credibili dichiarazioni che da quei dati prescindano o che addirittura li contraddicano.
L’adempimento del contribuente, se non esattamente spontaneo, sarebbe quindi, per così dire, “spintaneo” nella logica del nudging o della spinta gentile. Che non si tratti di ragionamenti astratti o ipotetici lo testimonia proprio quanto accaduto con le lettere per la compliance rese possibili a partire dal 2015 e che, nel 2018 hanno generato 1,8 miliardi di maggior gettito pur intervenendo nella fase immediatamente successiva alla dichiarazione . Si tratta di un risultato aumentabile anche sensibilmente attraverso alcune azioni concrete.
L’esigenza di nuove figure nell’Erario
In primo luogo, bisogna prevedere che l’Agenzia si doti di competenze nuove sia per la fase di analisi dei dati in tempo reale – informatici e statistici – sia per la fase di utilizzo dei dati in dialogo con il contribuente – psicologi ed esperti di comunicazione. Nel medio periodo, si dovrebbe pensare ad una ristrutturazione completa della filiera organizzativa che va dalla generazione all’uso dei dati, ad esempio creando un’Agenzia delle entrate-prevenzione che, come già accaduto per l’Agenzia delle entrate-riscossione, si configuri come ente pubblico economico incardinato all’interno dell’Agenzia delle Entrate e che riunisca, mantenendo le eventuali differenze di trattamento economico, le competenze oggi diffuse in varie parti dell’amministrazione finanziaria.
Profilare il rischio fiscale individuale
Per quanto l’amministrazione finanziaria possa certamente agire attivamente in modo da aumentare il grado di veridicità delle dichiarazioni trasmesse, il problema dell’evasione dei redditi autodichiarati (lavoratori autonomi e imprenditori individuali) e dell’evasione dell’Iva va affrontato predisponendo un piano di azioni successive al ricevimento delle dichiarazioni stesse. È qui che serve una vera e propria mappatura del rischio fiscale attraverso un’apposita attività di profilazione.
Per comprendere in che cosa consiste questa profilazione, immaginiamo che l’amministrazione finanziaria possa incrociare in un unico database tutti i dati, opportunamente anonimizzati e criptati, che possiede per ogni contribuente. Ad esempio, per ogni contribuente che autodichiara i propri redditi immaginiamo che nel database vi siano, almeno per gli ultimi 5 anni:
- i dati delle dichiarazioni,
- quelli degli studi di settore,
- quelli dei pagamenti delle imposte,
- quelli delle fatture e degli scontrini elettronici,
- quelli sui saldi e sulla giacenza media dei conti correnti,
- quelli sugli accertamenti e sugli esiti delle lettere per la compliance e così via.
A questo punto, immaginiamo che l’amministrazione finanziaria voglia, ad esempio, profilare il rischio, ovvero la probabilità, che un contribuente evada. Un modo per procedere potrebbe essere il seguente. Per tutti i contribuenti che hanno subito un accertamento con esito definito (in cui, cioè, l’evasione è stata giuridicamente quantificata in un ammontare certo) o abbiano risposto positivamente ad un invito ad adempiere da parte dell’amministrazione, utilizzando le tecniche di data mining, si identificano le caratteristiche soggettive che sono statisticamente correlate ai diversi livelli di evasione.
A ciascuno la sua probabilità di evadere
I dati, quindi, rivelano quali sono i profili individuali associati ai diversi gradi di evasione. Ovviamente la quantità e la qualità dei dati disponibili è un elemento cruciale perché questa rivelazione avvenga in modo affidabile. Il primo aspetto dovrebbe essere garantito dall’ampiezza delle basi dati originarie e il secondo dalla riorganizzazione dell’amministrazione finanziaria di cui si è detto in precedenza.
Una volta ottenuta questa profilazione, essa viene applicata all’insieme dei contribuenti che non hanno mai subito un accertamento per completare la mappatura del rischio fiscale: ad ogni contribuente, sulla base delle sue caratteristiche osservabili, viene assegnata una probabilità di evadere e un grado di intensità previsto dell’evasione. Dopo aver ottenuto questa mappatura, essa può fare da guida alle attività di contrasto dell’evasione.
Ad esempio, l’amministrazione finanziaria potrebbe prevedere di agire in modo più lieve (con lettere ed inviti al dialogo) nei confronti dei contribuenti che hanno un profilo di rischio minore ed invece in modo più deciso (accertamenti e verifiche) nei confronti dei contribuenti che hanno un profilo di rischio maggiore. Questo tipo di approccio è già stato sperimentato limitatamente agli accertamenti da redditometro ed ha avuto buoni esiti.
Ovviamente lo stesso approccio potrebbe essere ripetuto per molti altri scopi. Ad esempio, uno dei problemi cronici dell’amministrazione finanziaria italiana è che una quota molto bassa di ciò che viene accertato è effettivamente riscosso. Anche in questo caso le tecniche di data mining possono essere di grande aiuto, come dimostrato dal caso del Belgio.
Rimuovere i vincoli posti dal Garante della privacy
La profilazione massiva è stata fino ad oggi impedita, oltre che dai problemi propri dell’amministrazione finanziaria, dai vincoli posti dal Garante della privacy. Prendiamo ad esempio la vicenda dell’anagrafe dei rapporti e dei conti finanziari dove, dal 2011, accedono i dati relativi ai saldi iniziali, alla giacenza media e ai saldi finali di ogni conto, con i relativi dati anagrafici.
In un provvedimento del 17 aprile 2012 il Garante ha stabilito che, per consentire l’utilizzo dei dati, l’Agenzia sottoponesse al Garante stesso preliminarmente i criteri per l’elaborazione delle liste di contribuenti a rischio. Come evidenziato nel paragrafo precedente, la profilazione (ovvero l’elaborazione dei criteri di rischio) è il risultato dell’accesso ai dati. La richiesta di conoscenza preliminare impedisce quindi, di fatto, la profilazione massiva del rischio.
Logica deduttiva vs. induttiva
A ben guardare, l’atteggiamento del Garante si basa sulla logica deduttiva in cui, partendo da alcuni principi generali o elementi di conoscenza che si ritengono universali, si deduce una legge valida per tutti.
Il Garante richiede quindi di avere la possibilità di conoscere e giudicare questi principi generali. Questo modo di ragionare è coerente con un approccio tradizionale al contrasto dell’evasione, ma è caratterizzato da un alto grado di inefficienza (e di iniquità) perché i principi generali sono frutto esclusivamente dell’esperienza e della conoscenza di chi li decide, e non possono riuscire a sfruttare tutto l’insieme delle informazioni disponibili.
Invece, la logica del data mining è quella induttiva, in cui il punto di partenza è l’osservazione dei casi reali da cui si ottiene la regola (nel nostro caso: il grado di rischio fiscale). La disponibilità dei big data rende la logica induttiva molto più affidabile rispetto a quanto avveniva fino a poco tempo fa.
L’accesso a grandi quantità di dati non danneggia la privacy
Si noti che consentire l’accesso a quantità massive di dati non implica affatto consentire che quei dati siano rivelati se non ad un numero molto ristretto di persone. Le fasi di matching e di profilazione dovrebbero infatti avvenire con dati criptati, in base a codici che possono essere conservati nelle memoria dei pc senza essere noti a nessuno. Solo quando alla profilazione si passa all’azione i dati andranno decriptati ma, allora, l’informazione sarà detenuta per sottogruppi: i funzionari della provincia X incaricati dell’azione Y (accertamento, lettera, invito al dialogo) avranno accesso ai dati relativi ai contribuenti della loro provincia a cui è stata preliminarmente (e in modo automatico) assegnata l’azioneY. Ovviamente, tutti questi accessi ai dati sensibili andranno tracciati, esattamente come accade oggi.
In ultimo, va notato che rimuovere i vincoli posti dalla privacy non richiede di sottrarre l’attività di contrasto all’evasione al controllo del Garante, ma solo di cambiare la natura di tale controllo, che anziché basarsi sui criteri preventivamente comunicati dovrebbe basarsi sull’esito della profilazione del rischio e sulla congruità delle metodologie utilizzate. Sebbene sia legislativamente possibile pensare a soluzioni più drastiche che rimuovano del tutto il controllo del Garante, questa soluzione non sarebbe opportuna perché è necessario che l’azione dell’amministrazione finanziaria sia trasparente e verificabile.
Contrastare la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali
Le proposte formulate in precedenza sono finalizzate al contrasto dell’evasione attuata prevalentemente dalle attività economiche condotte in Italia. Un problema diverso è quello della pianificazione fiscale aggressiva attuata da parte delle multinazionali che spostano profitti dai paesi ad alta tassazione (come l’Italia) ai paradisi fiscali.
Ebbene, secondo una recente stima di Gabriel Zucman dell’Università di Berkeley, le multinazionali fiscalmente residenti in Italia delocalizzano 23 miliardi di euro di profitti che, se teoricamente tassabili ad un’aliquota del 24%, darebbero maggiori introiti di poco più di 5 miliardi annui (che sono presumibilmente esclusi dalle stime riportate in precedenza).
Cosa si può fare a livello nazionale contro le corporation che eludono
Sebbene il recupero di queste basi imponibili richieda dei cambiamenti anche sul piano internazionale, qualcosa è possibile fare anche sul piano nazionale. È operativo dal 2015 il regime di adempimento collaborativo o cooperative compliance. Esso si basa su uno scambio tra, da parte delle multinazionali, un impegno a svelare le modalità interne di gestione della funzione fiscale e, da parte dell’Agenzia delle entrate, un impegno a rivelare la propria interpretazione circa le conseguenze di tali modalità di gestione sul piano degli obblighi fiscali che la multinazionale ha nel nostro Paese.
L’impressione è che, ad oggi, i risultati conseguiti siano piuttosto modesti. Le società ammesse al regime sono una trentina, riconducibili a circa una quindicina di gruppi, che non appaiono essere quelli maggiormente a rischio di pianificazione fiscale aggressiva. Inoltre, non sembra che vi siano stati rilevanti cambiamenti di comportamento da parte di queste (poche) società incluse. In questo caso la proposta è quella di intervenire ridefinendo i criteri e le modalità di attuazione della cooperative compliance.
A questo scopo vanno utilizzati i dati sul country-by-country reporting in possesso dell’amministrazione finanziaria nonché i dati delle foreign affiliates statistics (FATS). Questi dati vanno utilizzati per mappare il rischio di pianificazione fiscale aggressiva, utilizzando gli indicatori che sono stati elaborati dalla letteratura internazionale a questo scopo. A questo punto, i criteri di accesso al regime di cooperative compliance e ai benefici da esso previsti andrebbero riscritti in modo che le multinazionali che effettuano una pianificazione fiscale aggressiva siano indotte ad entrarvi a patto di dimostrare un tangibile ed evidente cambio di comportamento.
I vantaggi del Country-by-Country Reporting secondo l’OCSE
Aumento dell’efficienza è obiettivo numero uno
Le proposte qui formulate hanno tutte un denominatore comune: l’aumento di efficienza dell’azione dell’amministrazione finanziaria attraverso un maggiore e migliore uso dei dati. In assenza di questo passaggio, misure come la riduzione della soglia di pagamento in contanti rischiano di rivelarsi del tutto inutili.
L’immissione di ulteriori dati quando gran parte di quelli già esistenti (ad esempio: i pagamenti che sono già effettuati con carta di credito) non sono utilizzati non è ragionevole.
Prevedere che, a fronte di questi ulteriori dati, sia riconosciuta anche una detrazione fiscale a cui non fa riscontro un’aumentata capacità di intercettare l’evasione è, addirittura, fonte di una perdita di gettito.
* Professore associato di Scienza delle finanze all’università Milano-Bicocca, membro del comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate, è stato consigliere economico della Presidenza del Consiglio dei ministri ed esperto tributario al Secit (Ministero delle Finanze).