La Cina e il carbone: un matrimonio letale che mina la guerra al climate change
Pechino punta sul carbone e non ha intenzione di fermarsi. Boom di progetti (e di CO2). Gli obiettivi di Parigi sul clima sono un miraggio
I cambiamenti climatici non spaventano più di tanto la Cina, sempre più orientata, dati alla mano, a espandere la capacità produttiva dei suoi impianti a carbone. Una strategia in controtendenza rispetto agli sforzi di ridimensionamento del comparto messi in campo dal resto del mondo. Ma anche una scelta pericolosa, che rischia di vanificare l’impegno globale per il raggiungimento degli obiettivi previsti dall’Accordo di ParigiL’Accordo di Parigi è un documento d’intesa tra le nazioni facenti parte dell’UNFCCC che è stato raggiunto nel 2015 al termine della Cop21.Approfondisci. È l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto dell’organizzazione no profit Global Energy Monitor. Dalle centrali a carbone in costruzione (in atto o prevista), riferisce l’indagine citando i dati messi a disposizione dal progetto Global Coal Plant Tracker, Pechino punta a trarre quasi 148 GW di capacità energetica aggiuntiva. Un valore pressoché identico a quello dell’intera coal capacity registrata oggi nell’Unione Europea, protagonista al contrario di un trend discendente.
Il boom del carbone cinese
I numeri, dunque. Che non lasciano spazio a molti dubbi. Nel periodo compreso tra gennaio 2018 e giugno 2019, la capacità produttiva del parco delle centrali a carbone nel mondo – Cina esclusa – è calata per la prima volta dagli anni ’80. Facendo registrare un lusinghiero -8,1 gigawatt (GW). Un’inversione di rotta che non sorprende, soprattutto alla luce del «costante pensionamento e del continuo declino nella messa in funzione di nuove centrali». Contemporaneamente, tuttavia, la capacità totale cinese nel comparto è cresciuta dismisura: +42,9 GW. Morale: nonostante le scelte strategiche a favore della decarbonizzazione condotte nel Pianeta, la capacità complessiva globale degli impianti a carbone è aumentata di quasi 35 GW nello spazio di 18 mesi. Un mezzo disastro, insomma.
Nuovi progetti trainano l’espansione
Dietro all’espansione cinese nel carbone, sottolineano i ricercatori, c’è soprattutto la «breve ma massiccia ondata di progetti approvati dal settembre 2014 al marzo 2016». Una vera e propria âge d’or del coal Made in China, fonte certa di facili guadagni e immediati vantaggi per i bilanci e le statistiche. In quel periodo, sottolinea ancora lo studio di Global Energy Monitor, «il governo centrale ha delegato le autorizzazioni alle autorità provinciali che, da parte loro, avevano forti incentivi ad approvare e costruire centrali a carbone per raggiungere gli obiettivi economici». Una storia nota, soprattutto per quelle aree del Paese – spiegava di recente Nicolò Sartori, Responsabile del Programma “Energia, clima e risorse” dell’Istituto Affari Internazionali – che «basano la propria economia essenzialmente sul carbone».
L’onda lunga dei permessi ha avuto effetti devastanti. Ancora i ricercatori: «L’ondata di autorizzazioni ha portato 245 GW di nuovi progetti quasi equivalenti alla potenza dell’intero parco delle centrali a carbone degli Stati Uniti, pari 254 GW. (…) Oggi, il potenziale delle centrali in costruzione attiva o dei progetti sospesi ma probabilmente in fase di rilancio vale 147,7 GW, una quantità pressoché pari alla capacità energetica a carbone esistente nell’Unione Europea (150 GW)».
Dal carbone alle emissioni il passo è breve
Il prezzo di queste scelte, ovviamente, si misura in CO2. Oggi, riferisce l’ultimo rapporto dell’UNEP, i primi quattro emittenti del Pianeta – Cina,
USA, Unione Europea e India – contribuiscono da soli a oltre la metà delle emissioni totali. Considerando l’intero G20 si sfiorano i quattro quinti dell’ammontare globale (78%). Ma a balzare agli occhi è soprattutto lo sganciamento della locomotiva cinese dal resto del convoglio.
La Cina è responsabile del 26% delle emissioni totali del Pianeta. Nell’ultimo decennio, riferisce l’UNEP, la CO2 prodotta nei suoi confini è aumentata in media del 2,5% ogni anno. Nello stesso periodo le emissioni statunitensi sono rimaste praticamente invariate (-0,1%). In India il tasso di crescita annuale si è collocato al 3,7%. Ma il peso delle emissioni del Paese a livello globale (7% della CO2 totale) è pari tuttora a poco di un quarto del contributo cinese. In forte controtendenza l’Unione Europea, che oggi «emette l’8,5% dei gas serra globali e (nell’ultimo decennio, ndr) ha avuto un calo costante dell’1% all’anno».
Il carbone di Pechino vanifica gli sforzi globali
La grande storia d’amore tra Pechino e il carbone, insomma, non dà segni di cedimento. I piani sul coal sembrano una promessa per la vita, intrecciati come sono con le esigenze di un’economia già colpita dal binomio rallentamento fisiologico/guerra commerciale. Ma per clima, è noto, si tratta di un abbraccio mortifero. L’IPCC, ricorda Global Energy Monitor, sostiene che il rispetto dell’accordo di Parigi per il contrasto al riscaldamento globale, implichi una riduzione compresa tra il 58% e il 70% della produzione di energia elettrica dalle centrali a carbone da qui al 2030. Oltre a un ulteriore calo fino a quota 85-90% entro il 2035. E il successo dell’iniziativa passa ovviamente da un’improbabile ondata di dismissioni cinesi.
In Cina 400 GW da tagliare in 10 anni
«Se la Cina continua ad aumentare la sua capacità produttiva fino al 2035, la sua sola produzione di energia derivante dal carbone sarà pari a oltre il triplo del limite globale di utilizzo stabilito dall’IPCC per mantenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2°C», si legge ancora nel rapporto. Per stare al passo con il programma, al contrario, la capacità energetica cinese originata dal carbone dovrebbe calare del 40% entro il 2030, passando dagli attuali 1.027 GW a non meno di 600 GW.
Riduzioni difficili da ottenere anche in assenza di ulteriori espansioni, conclude lo studio. E «certamente incompatibili» con i piani dei gruppi industriali della seconda economia del mondo.