Pandemia, principio di precauzione e governo della complessità
Walter Ganapini, ex presidente di Greenpeace Italia, ragiona in merito agli studi sulla possibile correlazione tra pandemia e inquinamento
Sul coronavirus permane una percezione di oggettiva difficoltà in materia di informazione circa genesi, evoluzione ed effetti della pandemia, a partire dai dati su diffusione del contagio e mortalità in Pianura Padana, al tempo della brama di “ripartenza”, mentre nella Germania “ripartita” riprende a crescere la curva dI circolazione del virus.
👏 @MirkoBusto A divulgatori, blogger,debunker:che PM siano vettore (#carrier) o concausa infiammazione (#booster),il #PrincipioDiPrecauzione chiede di considerate con serietà i fattori ambientali nella pandemi @Leonardobecchet @gonufrio
— Walter Ganapini (@wganapini) April 28, 2020
I dati della pandemia in Pianura Padana hanno stimolato i ricercatori
A tale difficoltà, molti ricercatori di diverse discipline, di università italiane e straniere, hanno cercato di reagire ponendo i loro strumenti conoscitivi al servizio di uno sforzo di comprensione di un così peculiare stato di cose. Senza né sottovalutare né misconoscere la centralità, ancor più in piena emergenza pandemica, delle discipline virologiche, infettivologiche, epidemiologiche, cosa che certo non farò io!
L’ambientalismo scientifico italiano ha tra le sue radici l’esperienza della Medicina del Lavoro, da cui scaturì a fine ’70 la chiamata a costruire una “comunità scientifica di massa”. Paradigma della necessità che lavoratori e forze riformatrici acquisissero, per poi diffonderle, le conoscenze tecnico-scientifiche necessarie per poter efficacemente esercitare critica a disuguaglianze ed iniquità sociali e progettare il cambiamento. Nei luoghi di lavoro e nei territori.
Lo sforzo interdisciplinare citato ha portato, pur nei tempi ristretti concessi, a documenti di lavoro, a partire da position paper basati sulla letteratura scientifica disponibile per arrivare poi ad articoli originali da sottoporre a peer review in vista di una pubblicazione su rivista.
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Obiettivo dei ricercatori: supportare il decision making
Credo che i ricercatori italiani coinvolti abbiano agito anche nella speranza di supportare con adeguate basi di dati il decision making circa la migliore strategia per garantire che la “Pianura Padana-locomotiva” riprenda a marciare. Stavolta in modo sostenibile, stante il contemporaneo incombere dell’irreversibile crisi climatica e della crisi finanziaria-industriale esplosa nel 2008. Focus quindi su un Green New Deal che riporti al centro il – sin qui mancato – rispetto di persone, comunità, natura, promuovendo adattamento, resilienza e generatività. Per dare linfa vitale a un nuovo modello di sviluppo, quello postulato dalla Agenda 2030 delle Nazioni Unite, eticamente evocato dalla “Laudato Sì” nei termini di “Ecologia integrale”.
I ricercatori indicavano come degna di approfondimento scientifico la possibile sovrapponibilità tra aree territoriali con elevata circolazione del virus ed alto inquinamento da particolato fine. Onde verificare eventuali effetti di amplificazione della diffusione del virus stesso, tramite aerosol. E anche per identificare nuovi indicatori grazie ai quali monitorare l’evoluzione della pandemia.
Ha perciò destato in me disagio e perplessità il registrare alcune scomposte, immediate reazioni all’uscita del position paper iniziale.
Quando assessori regionali padani all’Ambiente, di opposte appartenenze politiche, manager da loro chiamati a dirigere organi deputati al controllo ambientale e alcuni “depositari di saperi settoriali” non hanno reagito entrando nel merito, fornendo dati per smentire l’assunto del “paper”. Consegnando i filtri di centraline per la misura dell’inquinamento atmosferico a laboratori indipendenti attrezzati per verifiche analitiche sulla presenza di virus nel particolato da essi captato.
La mancata reazione di politici e manager
Con tono stizzito, pareva che gli attori di tali reazioni volessero significarci manzonianamente che approfondimento e confronto nel merito “non s’aveva da fare”, quasi l’ipotesi prospettata dovesse annoverarsi tra universalmente note “castronerie”.
E dire che il position paper era stato rispettosamente inviato dagli autori alle competenti istituzioni prima di essere reso pubblico. Senza averne risposta alcuna. Eppure il paper aveva destato attenzioni autorevoli, dal prof. Vincenzo Balzani, emerito dell’Alma Mater e linceo al prof. Ugo Bardi dell’università di Firenze e presidente del “Club of Rome”, fino al prof. Guido Visconti, emerito dell’università de l’Aquila. Che non sono noti per inseguire “castronerie”.
Scienza e coscienza dovrebbero indurre a stimolare confronti tra metodologie, basi di dati, modelli, allo scopo di validare scenari interpretativi dei fenomeni e proposte progettuali affidabili da fornire ai decisori per le azioni prioritarie da intraprendere. Quanto il tema sia ritenuto cruciale anche nel dibattito internazionale è dimostrato dalla riflessione di Jim Al-Khalili sulle colonne del Guardian, intitolata “Doubt is essential for science, but for politicians it”s a sign of weakness” .
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Così mi è sorto il dubbio che tono e contenuto delle reazioni registrate potessero far intuire la probabile presenza, nella penombra, in qualità di burattinai del “non s’ha da fare”, di vested interests fossili che non desideravano venisse messo in discussione l’assai profittevole (per loro) modello di sviluppo che ha portato la Pianura Padana ad essere una delle quattro aree ove si respira la peggiore aria al mondo.
Un modello fatto di concentrazione insediativa, di cementificazione senza limiti, di fittissima infrastrutturazione grigia fortemente impattante. Di sfruttamento intensivo di ogni risorsa naturale per quanto limitata, assenza di qualsivoglia manutenzione territoriale, brama famelica di norme #sblocca x-y-z per realizzare impianti obsoleti, da centrali a combustibili fossili fino agli inceneritori.
L’inquinamento nel Bacino del Po uccide decine di migliaia di persone
Sono stato testimone attivo dei decenni trascorsi tra indifferenza e sottovalutazione, da parte di politica ed amministrazioni (dalle locali alla centrale), di tale conclamato inquinamento che ogni anno causa decine di migliaia di morti addizionali nel Bacino del Po. E genera sia compromissione del sistema respiratorio che abbassamento di difese immunitarie in molti di coloro che in quel Bacino vivono. Effetti verificati clinicamente.
“Air pollution may be ‘key contributor’ to Covid-19 deaths”
Pare non si sian prese lucciole per lanterne.. @Valori_it @Leonardobecchet @gonufrio @Giangidegennaro @fimianif @distefanovalori @FrasoleAssisi https://t.co/izG4uwSC0G— Walter Ganapini (@wganapini) April 21, 2020
Da ambientalista che non ha mai amato né allarmismo né “rassicurazione a prescindere”, ho denunciato l’assordante silenzio e l’inazione di chi non può ignorare che l’aria padana è da anni classificata cancerogena dallo IARC di Lione, referente dell’OMS, per il suo tenore di black liquor, ricordando al contempo come da sempre noto il ruolo del particolato fine quale vettore di ogni tipo di inquinante, dai metalli pesanti agli idrocarburi policiclici aromatici fino a virus e batteri.
Già negli anni ‘80 in ENEA (presso il dipartimento “PAS”, Protezione Ambiente Salute, diretto dal prof. Mittempergher) studiavamo il fenomeno ‘aerosol cancerogeni’ in Pianura Padana nell’intorno di forti sorgenti emissive quali le centrali termoelettriche (‘partendo da Piacenza), convinti che nell’area la frequenza di nebbia rendesse ancor più biologicamente aggressivi gli inquinanti inalati (e non si parlava ancora di PM2,5 e della relativa facilità d’accesso agli alveoli polmonari).
Personalmente, da giovane ricercatore mi ero imbattuto nel tema “diffusione e trasporto di aerosol con presenza di virus e batteri” ancor prima della pandemia da coronavirus.
Ciò grazie ad uno studio che ne conclamava l’impatto sanitario (patologie gastroenteriche e respiratorie) su addetti a impianti di depurazione e residenti in aree a tali impianti contigue.
Polveri sottili e coronavirus: relazione trattata sbrigativamente
Fu alla luce di quella evidenza che iniziammo a consigliare alle istituzioni interessate di normare la copertura delle vasche di aerazione dei depuratori, sorgente degli aerosol, con apposite centine. Ha ulteriormente ravvivato la mia sensibilità alla materia l’aver condiviso un anno fa a Calvisano, nel Bresciano, le forti difficoltà registrate da cittadini ed istituzioni locali nel far decollare una strategia partecipata che, acclarandone le cause, contrastasse il pericoloso picco di legionellosi e polmoniti anomale che in quell’area si riscontrava da mesi.
Per questo non mi è garbato, nel pieno di una emergenza pandemica, vedere attori istituzionali e tecnici settoriali sottrarsi sbrigativamente alla legittima richiesta di studiare eventuali relazioni tra non episodiche concentrazioni fuori norma di PM2,5 – PM10 e pesante circolazione di coronavirus. Per questo temo che i “deniers a priori”, pur in buonafede, risentissero di una cultura “suggerita” per non verificare la potenziale correlazione tra i fenomeni.
Ove la correlazione risultasse evidente, ne discenderebbe l’obbligo ai pubblici tutori dell’interesse generale (dal diritto alla salute fino all”ambiente pulito come garanzia di salubrità e benessere delle popolazioni) di scelte politiche di sviluppo territoriale capaci di correggere le cause strutturali dei guasti riscontrati. Promuovendo la necessaria transizione e chiamando ricercatori, imprenditori, lavoratori, cittadini alla sfida dell’innovazione verso stili responsabili di vita, produzione, consumo.
Come governare sistemi complessi in regime di incertezza?
Su questioni di tale importanza, a mio avviso, alle istituzioni competerebbe di chiamare al tavolo di confronto tutti gli attori interessati, per discutere in modo trasparente le opzioni poste in campo. Percepire potenti vested interests fossili sullo sfondo, intendere alti lai da “lesa maestà corporativa accademica”, vedere neolaureati discettare sui social, con supponenza idolatrica, di peer review (di cui nessuno nega l’importanza, ma i cui esiti non corrispondono sempre, a posteriori, alle attese) mi obbligano a rimettere allora al centro una vexata quaestio da tempo incombente: come come governare sistemi complessi in regime di incertezza?
Do qui per acquisite “critica alla neutralità della scienza” ed urgenza di “controllo sociale sulle tecnologie”, a tutela di persone e comunità dalle chiusure autoreferenziali di “caste sacerdotali” detentrici del sapere, tante volte incontrate durante le battaglie contro i periodici tentativi di rilanciare energia nucleare, inceneritori, grandi opere, manipolazione di corredi genetici. La pandemia ha visto crescere ansia sociale anche per la percezione d”incertezza circa le citate politiche di exit strategy verso scenari di sviluppo sostenibile (non certo “ripartenza -”liberi tutti” – ritorno al passato”) e per il riproporsi di modelli culturali permeati di dualismi ricorrenti, dal conflitto tra le “due culture” a quello “specialismo vs. generalismo”, con l”aggravante del loro manifestarsi in tempi di storytelling e fake news.
Si rispolveri il pensare sistemico, da Morin a Prigogine da Laszlo a Capra fino al De Rosnay de “L’uomo inventò il telescopio per conoscere e comprendere l’infinitamente lontano, il microscopio per conoscere e comprendere l’infinitamente piccolo, oggi inventi il “macroscopio”. Per conoscere, capire e governare l’infinitamente complesso, tipico della globalizzazione deregolmentata, che perturba e sconvolge assetti storici, corpi normativi, sistemi di valori, relazioni strategiche, culture, ambiente.
«Occorre una lettura sistemica dei processi»
La complessità non ammette letture probabilistiche di fenomeni la cui comprensione si fonda sui rami stocastici della termodinamica e sulle “matematiche del caos” (i cambiamenti climaticiVariazione dello stato del clima rispetto alla media e/o variabilità delle sue proprietà che persiste per un lungo periodo, generalmente numerosi decenni.Approfondisci rappresentano un esempio). Governare la complessità in regime di incertezza implica anzitutto un lettura sistemica dei processi. A partire dallo studiare gli insediamenti antropici come luogo/rete dei flussi di materia, informazione, energia che sottendono, alimentandoli, gli insediamenti stessi.
L’analisi sistemica consente di redigere bilanci ambientali ed energetici (ed economico-finanziari ad essi correlati) e calcolare efficienza e rendimento dei diversi modi d’uso delle risorse in campo (finite, cicliche, rinnovabili). E bilanci prodromici alla semplificazione necessaria ai fini del processo “conoscere per deliberare” circa le opzioni da privilegiare nell’interesse generale. Sapendo che modelli di sviluppo sostenibili sono quelli che introducono ordine (neghentropia) nei sistemi a risorse finite, quale la nostra “casa comune” Terra.
Accettare la logica del Macroscopio significa definire quale sia la Best Needed Information tra tutte quelle disponibili (oggi spesso ridondanti) scegliendo il “grado di risoluzione” cui portare lo “strumento lettore”, dalla scala locale all’area vasta, fino al globo, in funzione del fenomeno considerato.
Analisi statistica, input/output, di processo ed ogni nuova modalità resa possibile dall’innovazione aiuteranno a leggere, modellizzare ed infine governare le connessioni tra i flussi di risorse che sottendono l’agire antropico preso in esame, non “frammento”, ma “insieme unitario”.
«Pare in atto una rimozione sistematica di 30 anni di studi»
Tale approccio – che per le civilizzazioni passate si traduceva in costante osservazione dei “micro-” e “macro-fenomeni” con cui un uomo consapevole del “limite” entrava in contatto durante la sua vita, osservazione da cui distillare le informazioni essenziali da trasmettere alle generazioni future in modi che andavano dal mito alla trasmissione orale e poi scritta – dovrebbe essere comprensibile più che mai nell’epoca 4.0 del passaggio ormai ineluttabile dalla cifra lineare a quella circolare. A partire dai cicli economici ai processi sociali e culturali.
Colpisce infine, nella cultura espressa dai detrattori “a priori” del position paper, l’assenza di menzione del principio di precauzione, fondamentale per governare i problemi attuali.
Pare in atto una rimozione sistematica di 30 anni di studi ed esperienze sul senso di tale principio. Strumento cautelativo per prendere decisioni politiche ed economiche su questioni scientificamente controverse senza perdere di vista l”unitarietà del reale (evitando il rischio “pagliuzza vs trave”).
#coronavirus ,particolato fine e metodo scientifico:questo spiega #UgoBardi ai peggior sordo (politici e corporazioni fossili e dintorni).Resto in attesa di tavolo tecnico di confronto @PietroGreco1 @jacopogiliberto @Giangidegennaro @AmbienteSalute @filippothiery @EUEnvironment pic.twitter.com/AugAZRAgje
— Walter Ganapini (@wganapini) April 28, 2020
La necessità di passare al “macroscopio”
Nel rapporto «Late lessons from early warnings: the precautionary principle 1896-2000», essenziale per inquadrare a livello comunitario il principio di precauzione, l’Agenzia Europea dell’Ambiente analizzò, documentandoli con rigore, i guasti generati da una incultura industriale (più ancora dalla finanziaria oggi dominante) finalizzata solo alla deregolamentata massimizzazione del profitto per pochi a fronte dell’impoverimento e della perdita di dignità e voce di tanti (gli “scarti”, come ci ricorda papa Francesco).
La “provocazione” rappresentata dal position paper (che comunque non è Vangelo) mi pare abbia liberato pensiero innovativo ed energia intellettuale pluridisciplinare da cui già sono sortiti frutti cognitivi utili al governo della pandemia in atto. Dal rivisitare la metrica del “distanziamento sociale” al misurare con sempre migliore approssimazione la trasmissione di droplets in aria fino al ricercare tracce del virus sia nel particolato intercettato dai filtri delle centraline di controllo (rinvenuto in 8 su 34 filtri a Bergamo) che nelle acque reflue (a Parigi, mentre a Milano è l’Istituto Mario Negri che le sta analizzando).
La “provocazione” potrà così dimostrarsi utile anche ai fini della prevenzione di altre crisi attese. L’importante, per l’oggi e per il domani, è essere consapevoli, con Ugo Bardi, che «la questione se l’epidemia sia correlata all’inquinamento è diventata politica. Tutti i ragionamenti sul peer-review e sulla necessità di altri dati fanno da schermo al fatto che c’è una forte corrente di pensiero al governo che ritiene che per far ripartire l’economia bisogna buttare a mare le regole contro l’inquinamento. Questo poi rischia di far ripartire anche l’epidemia».