Come finanza e clima possono diventare una trappola per i Paesi emergenti
I Paesi emergenti potrebbero trovarsi esclusi dai finanziamenti per la lotta ai cambiamenti climatici. Ecco come funziona la “trappola”
Per azzerare le emissioni di gas a effetto serra entro il 2050 il mondo ha bisogno dei Paesi emergenti. Tuttavia, questi mercati ricevono solo il 20% degli investimenti globali in energia pulita. L’ha evidenziato l’Agenzia Internazionale dell’Energia (International Energy Agency – IEA) in un recente report redatto in collaborazione con la Banca Mondiale e con il World Economic Forum.
Oggi nei mercati emergenti e nelle economie in via di sviluppo (EMDE) le emissioni di anidride carbonica (CO2) sono basse rispetto ai mercati sviluppati e alla Cina. Prendendo in considerazione il dato pro-capite, in 2,3 giorni un americano e un australiano in media riversano nell’atmosfera la quantità di CO2 che un maliano o un nigeriano emettono in un anno.
Nei prossimi decenni, però, la popolazione in crescita e lo sviluppo economico richiederanno quantità sempre maggiori di energia. Allo stato attuale, l’IEA stima che nel prossimo decennio il fabbisogno energetico dei Paesi EMDE aumenterà del 30% e tre quarti di questa nuova domanda sarà soddisfatta da combustibili fossili. Se non si troveranno soluzioni per alimentare la crescita economica dei Paesi emergenti con energie pulite, nei prossimi vent’anni saranno riversate nell’atmosfera 5 miliardi di tonnellate di CO2.
Gli investimenti in energie pulite mancano proprio dove sono più necessari
Finanziare una crescita economica inclusiva e a basso impatto ambientale nei Paesi emergenti è perciò una delle sfide decisive dei prossimi decenni. Nel corso del 2020 nei Paesi EMDE gli investimenti in energia pulita sono stati pari a 150 miliardi di dollari, in calo dell’8% rispetto all’anno precedente (dato su cui ha certamente inciso la crisi economica generata dalla pandemia di Covid-19). Dovranno aumentare di sette volte e superare i mille miliardi per centrare l’obiettivo zero-emissioni entro il 2050 a livello globale.
Investire nei Paesi emergenti costa di più: perché?
Uno dei fattori che ostacolano l’azione degli investitori privati nei Paesi EMDE è il costo degli investimenti. L’IEA ha indicato come gli investimenti azionari e obbligazionari nel settore energetico costino circa sette volte di più nei Paesi EMDE rispetto all’Europa e agli Stati Uniti.
Il costo del capitale è determinato principalmente dalle aspettative su quanto l’investimento sia rischioso e redditizio. L’esito di questa valutazione è strettamente condizionato dal contesto locale. In molti casi i Paesi EMDE sono caratterizzati da condizioni macroeconomiche fragili, mercati dei capitali poco sviluppati, assenza di infrastrutture finanziarie, scarsa solvibilità (cioè la capacità di ripagare i debiti) delle aziende. E ancora condizioni politiche instabili e sistemi regolamentari opachi e che ostacolano l’imprenditorialità e gli investimenti. Le conseguenze sono particolarmente pesanti nei settori ad alta intensità di capitale, come nel caso delle infrastrutture energetiche low-carbon.
Perché è importante ridurre il costo del capitale
Il costo del capitale tiene lontani gli investitori privati e incide sul percorso dei Paesi emergenti verso la neutralità climatica. Un recente articolo dello University College London ha analizzato le implicazioni di questa dinamica in Africa attraverso lo studio del costo medio ponderato del capitale (o WACC da Weighted Average Cost of Capital). Si tratta del costo che un’azienda deve sostenere per raccogliere risorse con cui finanziare un progetto in elettricità pulita. Si dice “ponderato” perché il calcolo prende in considerazione tutte le possibili fonti di capitale. Come azioni e obbligazioni.
Gli investitori utilizzano il WACC per valutare se un’azienda o un progetto rappresenti un buon investimento. Più è alto, più scoraggia. I ricercatori hanno calcolato che una riduzione del WACC entro il 2050 farebbe aumentare la generazione di elettricità low-carbon del 50%. E consentirebbe all’Africa di azzerare le emissioni nette con 10 anni di anticipo rispetto alle condizioni attuali (cioè nel 2058 anziché nel 2065).
Anche la finanza sostenibile trascura i Paesi emergenti
Gli analisti dello University College London hanno osservato anche che gli stessi approcci che caratterizzano gli investimenti sostenibili possono svantaggiare i Paesi EMDE. Anzitutto, l’analisi dei fattori ambientali, sociali e di governance (ESG) fissa l’asticella su alcuni requisiti che i Paesi emergenti faticano a rispettare. Per esempio di trasparenza, sviluppo democratico e rispetto dei diritti umani.
Inoltre, le strategie che integrano l’analisi dei rischi climatici materiali (cioè che possono avere conseguenze negative sul rendimento degli investimenti) tendono ad assegnare valutazioni basse ai Paesi EMDE. Che generalmente sono più esposti agli impatti fisici dei cambiamenti climatici. Anche e soprattutto perché non hanno le risorse per investire in adattamento. Cioè in sistemi che consentono di reagire o limitare i danni a fronte degli effetti del riscaldamento globale che non è più possibile evitare. È il caso dei sistemi di protezione dalle alluvioni o dagli uragani).
La trappola dell’investimento climatico
La combinazione di questi fattori genera un effetto che i ricercatori dello University College London definiscono “trappola dell’investimento climatico”. In pratica, si tratta di un circolo vizioso per cui condizioni locali poco attrattive per gli investimenti fanno aumentare la percezione del rischio. E, di conseguenza, il costo del capitale, che a sua volta diventa un fattore scoraggiante per gli investimenti.
Al tempo stesso, la carenza di investimenti con criteri o obiettivi ambientali compromette la capacità dei Paesi EMDE di proteggersi dai danni provocati dai cambiamenti climatici. Con ulteriore deterioramento delle condizioni economico-finanziarie locali. Inoltre, un limitato accesso alla finanza climatica è un’occasione perduta per realizzare infrastrutture energetiche che possono alimentare la crescita economica e lo sviluppo umano. Attraendo nuovi investimenti.
Come si esce dalla trappola dell’investimento climatico?
Una maggior stabilità politica, un contesto normativo che favorisca le aziende e il potenziamento dei sistemi finanziari locali sono passaggi essenziali. Un esempio è lo sviluppo del mercato dei green bond. Cioè le obbligazioni che hanno l’obiettivo di raccogliere risorse (“proventi”) per realizzare progetti a impatto ambientale positivo.
Anche il ricorso alla “blended finance” – cioè a meccanismi di finanziamento basati sulla collaborazione tra pubblico e privato – può essere funzionale ad avviare progetti che in normali condizioni di mercato sarebbero considerati “non investibili”. La rete di sicurezza garantita dai soggetti pubblici indica al mercato la direzione che prenderanno le scelte di politica economica. Inoltre, i progetti che hanno successo attirano nuovi investitori privati. L’effetto risulta amplificato se accompagnato dalla stretta collaborazione tra governi locali e banche internazionali di sviluppo.
Sostenibili a metà
Cina, solo una parte dei green bond è davvero green
Secondo un’analisi della Climate Policy Initiative, solo una parte dei green bond cinesi è in linea con gli standard internazionali
Altri attori importanti sono le banche centrali, che possono intervenire con schemi di supporto agli investimenti per progetti green, come avviene in Bangladesh.
La diplomazia internazionale verso la COP26
Anche la diplomazia internazionale deve fare la sua parte. L’articolo 9 dell’Accordo di Parigi sul clima stabilisce che i Paesi sviluppati devono assistere finanziariamente quelli in via di sviluppo sia per la mitigazione, sia per l’adattamento. Ogni due anni sono tenuti a comunicare l’importo e la tipologia degli investimenti. Uno dei punti in agenda per la COP26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che si svolgerà a novembre a Glasgow, riguarderà proprio il supporto che le economie avanzate devono garantire ai Paesi EMDE.
Nel 2009 i Paesi sviluppati si sono impegnati a investire almeno 100 miliardi di dollari all’anno per il clima nei Paesi in via di sviluppo. A giugno del 2021, dodici anni dopo, nel corso dell’ultimo G7 in Cornovaglia i leader non hanno ancora raggiunto un accordo per precisare come queste risorse verranno concretamente mobilitate. In un position paper pubblicato a luglio, una coalizione di Paesi EMDE ha chiesto alle controparti di attenersi agli impegni assunti. Uno dei punti di cui si discuterà a Glasgow sarà proprio la tabella di marcia che porterà a negoziare l’incremento degli aiuti dopo il 2025.
Federica Casarsa è policy officer presso Eurosif. Le considerazioni presenti in questo articolo sono espresse tuttavia a titolo strettamente personale e non riflettono necessariamente la posizione di Eurosif e dei suoi membri.