Rischi climatici, i grandi assenti dalle rendicontazioni finanziarie
I rischi climatici possono minare alla base la solidità di un’impresa, ma nelle rendicontazioni finanziarie non ce n’è traccia
I cambiamenti climatici comportano rischi finanziari. Non c’è autority, società di consulenza o banca centrale che non abbia ripetuto questo mantra fino allo sfinimento, dalla Banca Centrale Europea (BCE) alla Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), passando per il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Bank of England. Eppure, quando si vanno a leggere le rendicontazioni finanziarie delle grandi aziende, dei rischi climatici non c’è traccia. Una macroscopica incongruenza messa in luce dal think tank finanziario Carbon Tracker e dal team di esperti del Climate Accounting Project, coautori di un report dal titolo emblematico: Fyling Blind, volare alla cieca.
Quali sono i rischi climatici
Prima di addentrarsi nei numeri svelati dal report, conviene fare un passo indietro. I rischi climatici possono essere suddivisi in due grandi categorie: rischi fisici e rischi di transizione.
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I primi corrispondono all’impatto che gli eventi meteo estremi, sempre più frequenti e intensi per via del riscaldamento globale, avranno sulle imprese (e, come logica conseguenza, sui portafogli delle banche che le hanno finanziate). I Paesi mediterranei come l’Italia e la Grecia, per esempio, sono flagellati da ondate di calore e siccità che favoriscono gli incendi. Viceversa, gli Stati del Nord Europa sono vulnerabili alle alluvioni; ce l’hanno dimostrato le inondazioni di quest’estate in Germania e Belgio, destinate a restare nella memoria collettiva ancora a lungo.
Nel tentativo di arginare la crisi climatica, i governi di tutto il mondo hanno siglato l’Accordo di Parigi impegnandosi a introdurre drastici limiti alle emissioni di CO2. Da qui i rischi di transizione che coinvolgeranno soprattutto le industrie più inquinanti, obbligandole a riconvertire i propri impianti o addirittura il proprio modello di business. Se non ci riusciranno, rischieranno di trovarsi affossate dai cosiddetti stranded asset – cioè da quegli investimenti ormai “incagliati”, come i giacimenti da cui economicamente non ha più senso estrarre petrolio.
Trasparenza e coerenza, queste sconosciute
Sulla base di questo principio, gli autori del report hanno passato al setaccio le rendicontazioni finanziarie di 107 grandi aziende (e rispettivi revisori), pescando soprattutto dalla lista delle più inquinanti al mondo stilata dalla coalizione di investitori Climate Action 100+. Circa la metà del campione fa parte del settore dell’energia, dell’industria e dei trasporti: giusto per fare qualche nome, ci sono Boeing, Bmw, Air France-KLM, ExxonMobil, PetroChina e, per l’Italia, Eni ed Enel.
Ebbene, su queste 107 imprese, circa 7 su 10 non comunicano di aver preso in considerazione i rischi climatici. Magari hanno anche elaborato delle ipotesi e delle proiezioni relative al clima, ma in tre quarti dei rendiconti finanziari queste non compaiono. Tradotto, gli investitori e l’opinione pubblica non ne sanno nulla. Oltre alla scarsa trasparenza, salta all’occhio anche una certa incoerenza: il 72 per cento delle società ha pubblicato informative sui rischi climatici (anche descrivendoli come rilevanti a livello finanziario), ma i bilanci non ne tengono conto.
Cosa si rischia quando si ignorano i rischi climatici
Che dire poi delle società di audit, che quei bilanci li devono validare? L’80% non fa sapere se ha preso in considerazione o meno le questioni climatiche. Cioè dell’impatto degli obiettivi di riduzione delle emissioni, delle modifiche normative, del tracollo della domanda di mercato per alcuni prodotti. Difficile ritenerle questioni di poco conto.
Ci dà un’idea di quale sia la posta in gioco la Banca Centrale Europea (BCE). Che ha da poco pubblicato i risultati degli stress test climatici condotti su circa quattro milioni di società nel mondo e 1.600 banche dell’area euro. Il quadro che ne emerge è desolante. In assenza di politiche di mitigazione del riscaldamento globale, entro il 2050 i portafogli di crediti alle imprese erogati dalle banche hanno un rischio di default che supera dell’8% quello che è lecito attendersi in uno scenario di transizione ecologica.
«Senza politiche di transizione verso un’economia più verde, i rischi fisici aumenteranno con il tempo», spiega Luis de Guindos, vicepresidente della BCE. Un aumento incessante (perché i cambiamenti climatici sono irreversibili), non lineare e sbilanciato verso alcune aree geografiche. «È essenziale avviare una transizione precoce e graduale. In modo tale da poter mitigare i costi sia della transizione verde sia del futuro impatto dei disastri naturali», conclude.
Gli investitori sono tenuti all’oscuro
Su questi temi, però, le rendicontazioni finanziarie delle aziende non dicono nulla. Un fatto che appare inspiegabile. «È chiaro che gli investitori non stanno ricevendo le informazioni di cui hanno bisogno per quantificare i rischi climatici nei loro portafogli e prendere decisioni d’investimento consapevoli». Questa la dura presa di posizione di Morgan Slebos, dirigente dei PRI (Principi per l’Investimento Responsabile delle Nazioni Unite). «La cosa che fa riflettere è che molte delle società più inquinanti del mondo non sono riuscite a rivelare gli effetti dei rischi climatici all’interno dei loro bilanci di esercizio del 2020». «I comitati di audit, i revisori dei conti e le autorità di regolamentazione devono raccogliere urgentemente la sfida. E richiedere alle aziende di colmare tali lacune», gli fa eco Tracey Cameron, della coalizione di investitori responsabili Ceres.