Azionisti, attenti: le compagnie oil&gas potrebbero perdere 2.200 miliardi in 10 anni
Il think tank Carbon Tracker Initiative: troppi investimenti in megaprogetti contrari all'Accordo di Parigi. Le più in pericolo: Exxon, Shell, Total, Chevron, BP ed ENI
Altro che capitalismo finalmente illuminato dall’etica e dalla sensibilità ambientale. Nessuna delle grandi compagnie petrolifere e del gas sta ancora rispettando gli obiettivi climatici previsti dall’accordo di Parigi. Una discrasia palese, rispetto alle loro promesse pubbliche davanti agli azionisti, nelle quali si erano impegnate a ridurre drasticamente le emissioni climalteranti. Ma il problema non sono solo le (catastrofiche) conseguenze ambientali (le prime 20 multinazionali oil&gas causano da sole un terzo delle emissioni totali).
A risentirne saranno anche i portafogli degli azionisti: le perdite stimate, legate agli stranded asset delle varie compagnie, potrebbero arrivare fino a 2200 miliardi di dollari entro il 2030. Per avere un’idea della cifra: il Pil dell’Italia si ferma a circa 2000 miliardi.
50 miliardi in megaprogetti dannosi
Il calcolo è contenuto in un nuovo studio, pubblicato oggi dal think tank britannico Carbon Tracker Initiative. La data del lancio non è casuale: il 10 settembre infatti inizia la discussione fra i ministri delle finanze dell’Unione europea che dovranno ratificare (e quindi rendere esecutiva) la decisione della Banca europea per gli Investimenti che ha deciso di tagliare i ponti con qualsiasi finanziamento alle fonti fossili.
Per l’Italia sarà la prima uscita europea per il neoministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, chiamato a confermare l’intenzione del nuovo governo Pd-M5S di avviare un percorso green che agevoli la transizione energetica.
L’analisi inglese individua per la prima volta i singoli progetti delle principali corporation non coerenti con l’accordo di Parigi: le compagnie oil&gas hanno approvato, solo l’anno scorso, 50 miliardi di dollari di investimenti in 18 megaprogetti che minano gli obiettivi ambientali e minacciano i rendimenti a medio termine degli azionisti.
Fra i progetti, si va da quello di gas naturale liquido portato avanti in due tranche del valore totale di 13 miliardi di dollari da Shell in Canada, quello da 4,3 miliardi nelle acque del Mar Caspio di Shell, Chevron ed Exxon e il progetto Zinia 2 di BP, Exxon, Total ed Equinor da 1,3 miliardi in Angola.
Metà del valore degli investimenti a rischio
In particolare, ExxonMobil, Chevron, Shell, BP, Total, Eni, ConocoPhillips ed Equinor hanno speso ciascuna almeno il 30% dei propri investimenti nel 2018 su progetti che non sono allineati con i patti sottoscritti alla Cop21 nel 2015.
Una scelta per nulla isolata perché, secondo gli analisti inglesi, da qui al 2030 il potenziale di spesa delle corporation prese in esame è fortemente sbilanciato verso progetti nemici del clima: addirittura il 90% per Exxon, seguita da Shell (70%), Total (67%), Chevron (60%), BP (57%) ed ENI (55%).
Ma che cosa succederà a queste aziende visto che la domanda di petrolio e gas è destinata a diminuire in futuro come conseguenza delle nuove tecnologie o delle politiche energetiche? Uno scenario che dovrebbe far tremare i polsi agli investitori.
Queste aziende rischiano di perdere più della metà del valore dei loro investimenti in quel periodo, continuando a operare disinteressandosi degli obiettivi di mantenere la temperatura media globale sotto al grado e mezzo di aumento» spiega Andrew Grant, senior analyst di Carbon Tracker e autore del rapporto. «Gli investitori dovrebbero preoccuparsi della spesa di queste aziende per la produzione di nuovi combustibili fossili. Il modo migliore per preservare il valore per gli azionisti e allinearsi con gli obiettivi dei cambiamenti climatici sarà concentrarsi su progetti a basso costo che offrano i rendimenti più elevati».
Quanti pericoli dalle sabbie bituminose
Ci sono poi investimenti particolarmente rischiosi perché incompatibili con qualsiasi scenario di riduzione della crescita delle temperature. Tra questi, Grant punta il dito in particolare contro le sabbie bituminose: «Nessun nuovo progetto è coerente con gli obiettivi climatici di Parigi e comunque gli alti costi di produzione fanno sì che persino in un futuro con quasi 2,7°C di riscaldamento globale, il loro sviluppo sarebbe antieconomico».
Eppure, il rapporto inglese prevede che le strategie dei big dell’oil vanno in tutt’altra direzione: «l’associazione canadesi dei produttori – spiegano gli autori – prevede un aumento del 41% nella produzione di sabbie bituminose da qui al 2035».
Discorso analogo viene poi fatto per le estrazioni sull’Artico: «la maggior parte dei progetti è costoso e ad alto rischio, anche se esistono progetti a basso costo».
Il comparto dello shale oil invece rischia di diventare una sabbia mobile mortale per due compagnie statunitensi particolarmente esposte, Pioneer e Concho: i loro portafogli rischiano di rimanere interamente bloccati. Soddisfare una domanda di greggio da scisto in uno scenario a 2,7°C di aumento richiederebbe 1.100 miliardi di dollari di investimenti. Ma la somma crolla a soli 112 miliardi in uno scenario più virtuoso di 1,6°C.