Verso l’addio all’Energy Charter Treaty

La Commissione europea manda in pensione l'Energy Charter Treaty, il documento che proteggeva gli interessi delle compagnie petrolifere

Daniele Guidi
L'Energy Charter Treaty nasce per tutelare le compagnie petrolifere © Waldemar/Unsplash
Daniele Guidi
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Lo aveva già affermato la Corte di giustizia dell’Unione europea, ora si è convinta anche la Commissione guidata da Ursula von der Leyen. L’Energy Charter Treaty (ECT) va abbandonato al più presto (anche se non sono state rese note le tempistiche), perché incompatibile con qualsiasi ruolo e norma comunitaria. Un cambio di rotta, quello della Commissione, dopo la proposta avanzata a novembre – e subito naufragata per l’opposizione di Germania, Francia, Spagna e Paesi Bassi – di modificare il trattato. Così facendo, si rimuove la spada di Damocle che pendeva su quegli Stati che, giustamente, hanno deciso di intraprendere la transizione energetica, verso un futuro libero dai combustibili fossili.

L’Energy Charter Treaty, infatti, aveva l’unico scopo di “proteggere” le compagnie energetiche che basano il loro profitto su carbone, petrolio e gas. Il documento permetteva loro di chiedere risarcimenti per eventuali perdite su investimenti e profitti causati dalle scelte statali. Non solo, se uno Stato avesse deciso in modo unilaterale di abbandonare il trattato, questo avrebbe continuato a essere “appellabile” dalle compagnie per i successivi vent’anni. È il caso dell’Italia che, pur avendo optato per l’uscita nel 2016, era stata “condannata”, dopo cinque anni di arbitrato, a risarcire la compagnia petrolifera britannica Rockhopper per la decisione presa dal governo di porre fine a Ombrina Mare. Il progetto di estrazione petrolifera sarebbe dovuto sorgere nel Mar Adriatico, al largo della Costa dei Trabocchi, in provincia di Chieti.

A cosa serviva l’Energy Charter Treaty

Ma perché esisteva un trattato del genere? Firmato da 53 Stati nel 1994, l’ECT aveva come obiettivo quello di promuovere la cooperazione tra l’Europa occidentale e orientale. E garantire alle compagnie occidentali che investire nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, ricchi di giacimenti fossili, fosse sicuro. Una garanzia necessaria, specie in un momento storico in cui i governi dell’Est si stavano timidamente aprendo al capitalismo. L’Energy Charter Treaty avrebbe messo al riparo le imprese da eventuali nazionalizzazioni o dal mancato rispetto dei contratti per questioni di politica interna. Ciò in un momento storico caratterizzato da forte instabilità. Una garanzia che si è trasformata in un clamoroso autogol per i governi. E che avrebbe potuto costare fino a 344,6 miliardi di euro in risarcimenti, solo nell’Unione europea. Troppo, specialmente ora che servono investimenti massici per arginare la crisi climatica.

La decisione finale della Commissione di abbandonare la riforma dell’ECT e di accogliere la richiesta di certificare la morte del trattato è arrivata dopo aver constatato che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di rianimarlo e renderlo compatibile col maxi-piano sul clima volto a trasformare in azione la volontà europea di raggiungere le emissioni nette zero di gas serra – la cosiddetta carbon neutrality – entro il 2050.