Argentina, costo del denaro al 60%. Nuovo default in arrivo?
Il presidente argentino chiede al Fondo monetario di accelerare gli esborsi. Il peso è ai minimi storici, l’inflazione sale, il debito è sempre più costoso
Il Fondo monetario è pronto a rivedere i termini del programma di sostegno all’Argentina per rispondere al peggioramento delle condizioni di mercato. Lo ha confermato in una nota ufficiale la stessa Christine Lagarde accogliendo le richieste avanzate da Buenos Aires. «Nelle ultime settimane abbiamo percepito una nuova sfiducia sulle nostre capacità di finanziamento da parte dei mercati» ha dichiarato il presidente argentino Mauricio Macri in un messaggio alla nazione.
Il piano, ha precisato il numero uno della Casa Rosada, consisterebbe ora nell’accelerare i tempi di erogazione del prestito da 50 miliardi di dollari (15 dei quali già sborsati) del Fondo, sperando che tutto ciò sia sufficiente ad allentare la pressione sul peso.
Peso in caduta libera
La debolezza della moneta argentina è storia nota. L’inflazione picchia duro da anni; la modestia delle riserve valutarie e i mai sopiti timori sul debito nazionale fanno il resto. La tempesta vera e propria si è abbattuta sul Paese lo scorso mese di maggio quando la svalutazione del peso è andata incontro a un’improvvisa escalation. La Banca centrale ha risposto con un maxi rialzo dei tassi, saliti di 1.275 punti base (12,75 punti percentuali) nello spazio di otto giorni. Ma la terapia monetaria si è rivelata del tutto inutile.
Giovedì 30 agosto, il Banco Central ha alzato il costo del denaro di 15 punti base fino a quota 60%, ovviamente il livello più alto del Pianeta. L’inflazione annuale, misurata a luglio, ha raggiunto il 31,2% e la pressione sul mercato dei cambi è cresciuta ulteriormente. La valuta nazionale, nel frattempo, prosegue la sua corsa al ribasso nei confronti del dollaro. Per acquistare un singolo biglietto verde servono circa 40 pesos contro i 19 scarsi di inizio 2018.
Source: tradingeconomics.com
Allarme debito in valuta estera
I timori, a questo punto, riguardano soprattutto la sostenibilità del debito. Entro la fine del 2019 Buenos Aires dovrà onorare pendenze totali per 50 miliardi di dollari: parte dei debiti è denominata in pesos, il resto in valuta USA. Il progressivo deprezzamento della moneta nazionale rende il fardello in valuta estera sempre più pesante, facendo aumentare la paura di un ennesimo default.
Il rischio di breve periodo supera tuttora quello a lungo termine – al 29 agosto 2018 i titoli a 12 mesi rendono il 26% contro il 18% di quelli a 9 anni – evidenziando così quel fenomeno della “curva inversa” (gli interessi pagati sui bond a breve scadenza superano quelli sui titoli di medio e lungo periodo) che, come sanno gli analisti, non promette mai nulla di buono.
L’Argentina e la dottrina Macri
Nell’aprile del 2016, l’Argentina ha raggiunto un contestato accordo con i fondi “avvoltoio”, il gruppo dei creditori dissidenti capeggiato dalla statunitense Elliot Management. L’intesa ha consentito alla società USA di portarsi a casa 2,28 miliardi di dollari pari al 1.200% circa dell’investimento iniziale (177 milioni) condotto attraverso il suo fondo distressed NML Capital.
Da allora, come promesso con molta enfasi dallo stesso Macri, Buenos Aires ha ripreso a finanziarsi sui mercati internazionali indebitandosi con grande disinvoltura. Simbolo della dottrina presidenziale il clamoroso bond Matusalemme, il titolo a 100 (cento) anni collocato nel giugno del 2017. A fine agosto 2018 il suo valore sul mercato secondario si colloca a quota 70,5 centesimi per dollaro, il prezzo più basso mai registrato.
A generare ulteriore tensione, infine, è il timore fondato di un crescente coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale negli affari argentini. Non è un mistero che l’istituzione finanziaria sostenga apertamente la politica economica di Macri basata sulle liberalizzazioni e i tagli alla spesa. Scelte, queste ultime, fortemente contestate dall’opposizione.
Tra i provvedimenti più controversi la cancellazione dei sussidi statali che avevano garantito per anni tariffe pubbliche a basso costo per energia e trasporti. La loro abolizione ha favorito la crescita dell’inflazione generando un forte malcontento. Il 29 agosto, la Confederación General del Trabajo, principale sindacato del Paese, ha indetto uno sciopero generale per il 25 settembre prossimo, per protestare contro la politica economica del governo. È la quarta volta dall’insediamento di Macri; la seconda nel 2018. Le elezioni presidenziali sono in programma per il 27 ottobre del 2019.