Assemblea di Eni: i misteri della decarbonizzazione
All’assemblea di Eni, il 15 maggio, le oltre 300 domande degli azionisti critici erano molto dettagliate. Le risposte lo erano un po' meno
Quanta nostalgia per le lunghe esposizioni monocordi di Emma Marcegaglia, gli scatti d’ira di Claudio Descalzi, le cantilene venete di Paolo Scaroni. Bisogna tornare indietro ormai di cinque anni per recuperare dagli archivi un’assemblea degli azionisti in presenza di Eni. Dalla pandemia in poi tutto si svolge a porte chiuse. E ora, con l’approvazione del Ddl Capitali, questa modalità barbara di confronto è stata resa permanente: unico caso al mondo. Non è prevista nemmeno la possibilità di collegarsi online e interloquire con presidente, amministratore delegato e consiglio di amministrazione in forma virtuale. In qualche ufficio della sede sociale si riuniscono gli amministratori e accolgono il ‘rappresentante designato’, che ha raccolto i voti degli azionisti e qualche sparuta domanda. Non esistono foto dell’evento. Solo un comunicato stampa con i risultati e un verbale.
L’ultima reliquia delle assemblee
Agli azionisti critici resta solo un appiglio: l’articolo 127-ter del Testo Unico della Finanza, ‘il TUF’, come dicono gli addetti ai lavori. Esiste dal 2011 ed è tutto quello che è rimasto delle vecchie assemblee. Permette di inviare all’impresa domande in forma scritta, a cui viene risposto, sempre per iscritto, sul sito aziendale.
Un tempo si riservavano al 127-ter le domande più tecniche o quelle per le quali in assemblea non ci sarebbe stato tempo. Oggi è uno spazio burocratico in cui si apre e si chiude tutto il dialogo assembleare italiano.
All’ultima assemblea di Eni, che si è tenuta il 15 maggio, il ‘127’ era composto di 122 pagine e oltre 300 domande da parte di tre azionisti: Marco Bava, Fondazione Finanza Etica e l’organizzazione non governativa ReCommon. La Fondazione di Banca Etica, a sua volta, ha raccolto domande da organizzazioni come A Sud e Un Ponte Per.
Il processo evolutivo dell’azionista critico
Le domande sono molto dettagliate. Le risposte di Eni lo sono di meno, a volte semplicemente per vincoli contrattuali che impongono di non rendere pubblici alcuni dati. Però spesso permettono alle organizzazioni e alle campagne di avere, nero su bianco, dichiarazioni e impegni dell’impresa che possono poi essere monitorati nel tempo. I file PDF delle risposte, infatti, rimangono sul sito dell’impresa per anni. È una possibilità che, per esempio, gli azionisti tedeschi non hanno. Le loro assemblee sono in presenza, certo, ma di scritto non rimane nulla. Non è reso pubblico nemmeno il verbale assembleare.
Per questa ragione, in presenza di norme così diverse, l’azionista critico italiano e quello tedesco si sono evoluti in due specie completamente diverse. Sanguigno, impulsivo e fisico il tedesco. Esegeta, cavilloso ai limiti della pedanteria l’italiano.
Obiettivi di decarbonizzazione evanescenti
Ma passiamo alle domande di Fondazione all’assemblea di Eni. Nel 2020 Eni aveva dichiarato che nel 2025 avrebbe raggiunto il massimo di produzione di petrolio e gas, il famoso ‘plateau’. Poi la produzione sarebbe gradualmente scesa. «Perché ora il plateau è stato spostato in avanti di due anni?», chiede Fondazione. Eni spiega che «in risposta alla crisi pandemica, come altri operatori del settore, ha rallentato investimenti e rimodulato le proprie attività produttive». La rimodulazione rimarrebbe però «coerente con la strategia di decarbonizzazione», anche se non si capisce bene come.
Insomma, c’era un obiettivo ma non lo rispettiamo più perché sono cambiate le condizioni del mercato. E la produzione di petrolio e gas aumenterà del 3-4%all’anno dal 2023 al 2027, come da piano industriale. Però nel frattempo il pianeta si surriscalda lo stesso, non si ferma ad aspettare le rimodulazioni. La precedenza viene data alle «istanze degli stakeholder in termini di sicurezza, economicità e sostenibilità ambientale dell’energia».
Vani i tentativi di Fondazione di chiedere, tramite due ulteriori domande, se ci sia un limite allo spostamento in avanti del ‘plateau’. Se un giorno si inizierà a rallentare la produzione di petrolio e gas in ogni caso, «indipendentemente dall’avverarsi o meno di circostanze eccezionali». Eni rimanda alla risposta precedente. E quindi ammette, implicitamente, che non intende fissare un limite.
Niente gas in Palestina
Più chiare, invece, le risposte sull’esplorazione di gas in Palestina. Il 6 febbraio 2024, lo studio legale Foley Hoag aveva inviato un avviso a Eni Spa e altre due piccole società petrolifere. Le aveva invitate a desistere dall’intraprendere qualsiasi attività nelle aree marittime dello Stato di Palestina, sottolineando che costituirebbero una «flagrante violazione del diritto internazionale». Si tratterebbe, infatti, di «atti di saccheggio delle risorse naturali sovrane del popolo palestinese». Il 62% della zona interessata rientra infatti nei confini marittimi dichiarati dallo Stato di Palestina nel 2019. Il governo israeliano ha annunciato la concessione il 29 ottobre 2023, tre settimane dopo l’attacco di Hamas. Il bando per la concessione era stato lanciato nel dicembre del 2022.
Che intende fare Eni? Chiede Fondazione Finanza Etica. La società risponde che al bando aveva partecipato nel luglio del 2023, quindi «prima dell’escalation geopolitica iniziata il 7 ottobre». «L’annuncio dell’aggiudicazione è avvenuto il 29 ottobre 2023 e ad oggi nessuna licenza è stata ancora emessa e, pertanto, nessuna attività è stata avviata nell’area». In più non sono stati ancora scoperti idrocarburi. Se non si scoprono non si possono estrarre. Ma se non si fanno partire attività di esplorazione non si possono scoprire. Quindi è tutto fermo. Almeno per ora.
Cerco un centro di gravità permanente
Decine di altre domande sono state spedite sul gas flaring in Iraq e la coltivazione di colture agricole energetiche in Africa per produrre biocarburanti. Oppure l’uso di olio di palma e derivati nelle bioraffinerie. In molti casi Eni ha fornito dati di produzione inediti: quantitativi prodotti ed esportati, ettari coltivati, contadini impiegati. In altri le risposte sono state meno precise.
L’olio di palma non è più utilizzato nelle bioraffinerie ma Eni si era impegnata a non usare più nemmeno il Pfad, l’acido grasso dell’olio distillato. Un sottoprodotto del processo di raffinazione. «Nel 2020», ricordano i meticolosi azionisti critici che sono andati a rileggersi il ‘127’ di quattro anni fa, «ci avevate detto che avreste smesso di usarlo nel 2023 ma pare che lo stiate usando ancora».
Eni candidamente risponde: sì, lo usiamo ancora. Ma nel frattempo è cambiata la normativa e il mercato è evoluto. Il Pfad è diventato uno «scarto di produzione valorizzabile a fini energetici». L’uso del Pfad è ora consentito dalle normative europee e italiane. Questo nonostante «studi scientifici dimostrino come i PFAD siano peggiori per il clima rispetto al diesel fossile e non molto meglio dell’olio di palma grezzo», sostiene l’organizzazione T&E (Transport & Environment).
Insomma, se cambiano le normative e le condizioni di mercato, gli obiettivi che ci si era posti possono essere spostati in avanti o anche cancellati. Questo però in coerenza con il piano di decarbonizzazione. Come possa riuscire questa impresa non è del tutto chiaro. Ma cercheremo di scoprirlo nella prossima tornata del ‘127’. Nella primavera del 2025.