Nel calcio dei capitali privati segnare un gol non serve a niente
Più che dai giocatori che rincorrono un pallone, oggi nel calcio i soldi sono fatti con soldi che rincorrono altri soldi
Segnare non serve a niente, meglio costruire. E no, non è l’ultima evoluzione tattica di Guardiola o De Zerbi, che antepongono la bellezza di un passaggio o di un movimento di squadra alla fredda esecuzione di un gol. È l’input aziendale dei fondi di capitale privato (private equity, venture capital, consorzi) che secondo una ricerca di PitchBook oggi detengono il 35% delle squadre dei cinque grandi campionati europei. In campo la squadra può segnare o no, ai padroni non interessa. A loro serve costruire: stadi, alberghi, negozi, partnership commerciali, e così via. Ma soprattutto, nuove proprietà.
Il capitale privato – in termini assoluti, non solo nel mondo del calcio – maneggia circa 10mila miliardi di dollari, circa cinque volte tanto quello che valeva dieci anni fa. E il suo margine di movimento nel pallone è aumentato di conseguenza, soprattutto dopo la pandemia che ha messo in ginocchio il settore. Il Milan, l’Atalanta, il Chelsea, ma anche il Newcastle del fondo sovrano saudita, per dire delle acquisizioni dell’ultimo anno, sono tutte squadre in mano totalmente a fondi di capitale privato. Le altre sono miste.
I fondi di private equity (che rappresentano poi la maggior parte del capitale privato in circolazione) hanno un solo e unico obiettivo: distribuire dividendi agli azionisti. Altrimenti hanno fallito. E soprattutto hanno un enorme vantaggio rispetto al capitale pubblico (società registrate come tali, o quotate in Borsa ad esempio) che è quello di potersi permettere meno trasparenza negli acquisti e nelle vendite. Non devono rendere conto a nessuno. E questo è lo snodo fondamentale per comprendere quello che sta succedendo nel pallone.
Questi fondi sono per la maggior parte americani. Americani per modo di dire, dato che sono registrati nei paradisi fiscali a stelle e strisce. Ma poi hanno soci e padroni globali. Da qui deriva tutta la leggenda sulle proprietà americane nel pallone, che non sono tali come abbiamo già analizzato qui. Un’altra leggenda, o comunque una storia che racconta solo parte della verità, è che queste nuove proprietà finanziarie siano interessate all’indotto del calcio: stadi, sponsor, merchandising.
È sicuramente vero, soprattutto per quanto riguarda gli stadi, che permettono una speculazione edilizia che fa crescere a dismisura gli introiti. Vedi l’esempio del Milan e della sua affannosa corsa al nuovo impianto. Ma non finisce qui. Come abbiamo visto il vantaggio del capitale privato è di non rendere conto a nessuno nelle compravendite dei vari fondi o dei loro asset. Ecco allora che il vero guadagno arriva proprio dalla compravendita dei club. Che non significa solo venderli ad altri, ma spesso e volentieri venderli a nuovi fondi o a nuove partnership creati da quello precedente.
La ricerca di PitchBook ci ricorda infatti che se nel 2019 la spesa del capitale privato nella compravendita dei club di calcio era di 250 milioni di dollari. Oggi ha superato i 5 miliardi. Ci viene in aiuto ancora una volta la situazione del Milan, comprato (con molti passaggi opachi, tra cui l’interregno di Mister Li) prima dal fondo Elliott e poi venduto al fondo RedBird, di cui Elliott è in buona sostanza partner. Oltre che mantenere interessi nel club. Ecco il business del capitale privato nel pallone, rivendere lo stesso asset (anche internamente) facendone aumentare il valore. Va bene il nuovo stadio, ma qui si va oltre, qui soldi si fanno con la pura metafisica finanziaria.