CETA: favorisce solo miniere e petrolieri. Dubbi pure oltreoceano
L'istituto IRIS di Montreal stronca l'accordo euro-canadese: danneggerà ambiente e industrie alimentari. Avvantaggerà invece l'industria inquinante e chi esporta il petrolio più sporco
Tutti lo volevano, prima. Eppure a due anni dalla sua entrata in vigore in forma provvisoria (21 settembre 2017) l’ormai famigerato CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) non piace più a tanti. Ecco in sintesi la storia (triste) dell’accordo commerciale bilaterale tra Europa e Canada, che si arricchisce di un nuovo capitolo, dopo che è stata pubblicata un’analisi che critica fortemente gli effetti sull’economia di Ottawa del trattato approvato dal Parlamento europeo a febbraio del 2017. Dopo ben 7 anni di negoziato che avevano portato all’elaborazione della versione finale nel 2016.
Questa volta a puntare il dito non sono gli attivisti di Stop TTIP, né il consorzio del Parmigiano Reggiano ferito nell’export, bensì un istituto di ricerche socioeconomiche indipendente (IRIS, Institut de recherche et d’informations socio-économiques) con sede a Montreal, cioè proprio in Canada.
L’IRIS nel 2014 già rilanciava le previsioni preoccupate del Canadian Centre for Policy Alternatives, secondo cui l’eliminazione delle tariffe in base al CETA avrebbe prodotto «un aumento del deficit commerciale con l’Ue, allo stesso tempo approfondendo la dipendenza sproporzionata del Canada dalle esportazioni dell’industria estrattiva come quella mineraria, del petrolio e gas, produzioni a valore aggiunto più elevato».
Il settore alimentare non fa festa. Da ambo i lati
Quelle preoccupazioni, a 5 anni di distanza, sono state messe alla prova dei numeri: l’IRIS ha pubblicato un documento (Quel impact sur la balance commerciale canadienne?) in cui, tra le altre considerazioni, l’autore ricercatore Guillaume Hébert scrive:
«l’Unione europea sembra essere molto più veloce ad adattarsi al mercato canadese che viceversa nel settore alimentare».
E benché questa sottolineatura faccia il paio, ma in senso diametralmente opposto, con la convinzione di alcuni operatori da questa parte dell’oceano, trova conforto e sostegno nelle parole di Monica Di Sisto, evidenziando la complessità delle dinamiche commerciali in atto.
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La portavoce di Stop TTIP ricorda che «Molti dei prodotti alimentari canadesi non possono arrivare in Europa perché non sono “abbastanza sani” per noi: carne allevata con gli ormoni, impiego di stabilizzanti e conservanti vietati, presenza di residui di pesticidi o diserbanti – vedi glifosate – troppo elevata. Per questo i canadesi stanno col fiato sul collo alle commissioni “tecniche” create dal CETA. Perché non intendono cambiare le loro produzioni per noi, non gli conviene, preferendo premere per modificare le nostre regole».
Export canadese depresso in vari comparti
Il rapporto del dottor Hébert, d’altra parte, va più a fondo, e ben oltre il solo settore alimentare. Secondo le rilevazioni ufficiali, nel biennio appena trascorso la bilancia commerciale canadese (cioè il valore delle esportazioni meno quello delle importazioni) è peggiorata complessivamente del 22,1% guardando agli scambi con i principali partner in Europa.
Un dato già significativo, che appare particolarmente sconfortante per alcuni settori industriali. Oltre al profondo rosso nell’alimentare (-40.9%) spiccano infatti i numeri al ribasso dei prodotti forestali (-38.5%), dei macchinari industriali (-37,1%), delle materie plastiche e dei prodotti in gomma (-34,9%), dei prodotti di consumo (-21%).
CETA premia il petrolio estratto distruggendo l’ambiente
Ma per molti canadesi che piangono, altri (i soliti) si fregano le mani. Sono quelli del settore energetico, la cui bilancia commerciale appare in decisa controtendenza rispetto a quanto letto sopra. Tant’è che nello stesso periodo ha registrato un più che notevole miglioramento del 125,2%, trasformando il Canada da importatore netto a esportatore netto di prodotti energetici nei confronti dell’UE.
Al di là di una visione economicistica dei numeri, Hébert ha il merito di voler allargare la sua analisi del CETA alle questioni ambientali connesse, ricordando i timori espressi da diversi gruppi di attivisti durante il processo di negoziazione. L’accordo, infatti «non include una misura climatica vincolante o una clausola che consenta agli Stati membri di bloccare i prodotti che potrebbero avere un impatto negativo sui loro ecosistemi».
Una lacuna sicuramente vantaggiosa per le corporation petrolifere locali, e però grave sotto il profilo della lotta al climate change e della tutela ambientale. Poiché gran parte dell’export canadese di energia è composto da petrolio estratto dalle sabbie bituminose. E una disposizione di protezione ambientale inserita nel corpo del trattato avrebbe provocato l’incertezza sulle esportazioni di petrolio canadese, frenando il settore.
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Il freno non è stato tirato neppure sui prodotti dell’industria estrattiva, dal momento che la bilancia commerciale dei prodotti di origine mineraria (soprattutto alluminio lavorato e prodotti in metallo finiti come bulloni e leghe) ha registrato nel solito periodo un +12,5%. Evidenziando così un flusso delle transazioni dal Canada all’Europa superiore a quello in direzione contraria.
Il divario è iniziato già prima della firma del CETA, soprattutto tra il 2015 e il 2016 e – suggerisce l’analisi di IRIS – sospinto dall’entrata in vigore delle misure protezionistiche statunitensi imposte sull’acciaio e (da giugno 2018 a maggio 2019) sull’alluminio. L’offerta canadese si sarebbe perciò indirizzata in Europa, quando è diventato più costoso commerciare con gli USA, ma non è detto che questo andamento sarà confermato nel medio termine.