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Cina, il credito a rischio fa paura. E i fondi USA fiutano l’affare

In Cina 580 istituti di credito sono ad alto rischio per i non performing loans. Gli investimenti esteri raddoppiano. Lo spettro della bolla cresce

Matteo Cavallito
La Cina ha un problema sempre più grave con il suo ciclo del credito © Huangkeipais/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
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La non notizia è che la Cina ha un problema sempre più grave con il suo ciclo del credito. La seconda notizia non proprio inedita è che la Banca centrale (People’s Bank of China, PBoC) ha introdotto l’ennesima misura espansiva tagliando, per l’ottava volta dal 2018, i requisiti minimi sulle riserve degli istituti di credito con l’obiettivo di liberare 115 miliardi di dollari di fondi extra a sostegno dell’economia.

La novità vera, invece, è che da qualche tempo Pechino sarebbe intenzionata a condurre in porto un’operazione di pulizia senza precedenti, anche con l’ausilio degli investitori stranieri. Solo che il quadro resta preoccupante e il circolo vizioso è più o meno immutato. L’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria redatto dalla stessa PBoC stima che nel Paese vi siano più di 580 istituti ad alto rischio. A pesare sono i crediti non performanti, ovvero – semplificando – i prestiti che rischiano di non essere restituiti. E il rallentamento economico, a proposito di non notizie, rende tutto più complicato.

Il triangolo prestiti-consumi-infrastrutture

Per anni – perché così voleva il governo – gli istituti hanno finanziato i clienti retail, le imprese e i governi locali per alimentare un ciclo espansivo fatto di consumi e infrastrutture.

Un nesso «schizofrenico» secondo qualche analista, che potrebbe nascondere la temutissima e più volte annunciata «bolla del credito».

E la paura, a quanto pare, non è un fenomeno recente né tanto meno uno stato d’animo confinato al mondo degli istituti locali. Da tre anni, scriveva a novembre il Financial Times, i pesi massimi del credito cinese come come ICBC, Bank of China e China Construction Bank stanno spingendo forte sulle operazioni di ristrutturazione per gestire i prestiti non performanti nelle filiali di Hong Kong, la grande porta di accesso alle operazioni offshore sul mercato globale. La Cina continentale (in pratica i territori sotto il controllo di Pechino, a esclusione di Taiwan, Hong Kong e Macao) nel frattempo riscopre prepotentemente le opache banche ombra, con tutti i rischi del caso.

Aumenta il credito non performing

Secondo i dati diffusi dalla China Banking and Insurance Regulatory Commission, all’inizio del quarto trimestre 2019 i prestiti non performanti (Non performing Loans, NPLs) sul mercato cinese ammontavano all’1,9% del credito totale. Il peso degli NPLs (in crescita di un decimo di punto percentuale sul trimestre precedente) resta piuttosto basso nel confronto con il record storico del marzo 2005 (12,4%). Ma l’incidenza dei bad loans sul credito totale è pur sempre pari al doppio del dato percentuale registrato all’inizio del decennio. E in Cina, nel frattempo, circolano sempre più soldi. A settembre il credito complessivo presente sul mercato domestico sfiorava i 30 trilioni di dollari, quasi dieci volte tanto il valore delle riserve estere (3.100 miliardi).

Quasi il 5% del credito è sostanzialmente in default

«L’incidenza del credito non performante è stabile ma il dato non racconta tutta la storia» ha scritto di recente il network Asia Times e il pensiero corre ai prestiti problematici i cui dettagli «non sono sempre resi noti dalle banche». Secondo il portale economico giapponese Nikkei Asian Review, nei primi sei mesi del 2019 gli NPLs cinesi sono aumentati del 10% raggiungendo un ammontare totale di 2,24 trilioni di yuan (oltre 300 miliardi di dollari). A questi si aggiungono idealmente i prestiti cosiddetti subperforming, di qualità superiore ma non per questo immuni da rischi. In totale il credito cinese già in default o per lo meno prossimo alla bancarotta rappresenterebbe oggi il 5% del totale.

Fondi USA all’assalto

La vera novità, come si diceva, è che alle operazioni di pulizia del sistema bancario contribuiscono ora anche gli investitori stranieri. Già nel 2018 gli acquisti di debiti distressed – il credito a rischio, insomma – da parte dei fondi esteri avevano raggiunto quota 22 miliardi di yuan, circa 3,3 miliardi di dollari, il doppio rispetto a un anno prima. Le operazioni sarebbero state condotte principalmente dai fondi americani controllati da società di lungo corso come la bostoniana Bain Capital, la texana Lone Star Funds e la major Goldman Sachs. Il materiale d’altra parte non manca: in Cina, dove il credito cresce da anni a ritmi superiori rispetto all’economia nel suo insieme, i debiti delle famiglie valgono il 52% del Pil, il triplo – in termini relativi – rispetto a dieci anni fa.

Sul mercato cinese riecco i “titoli della crisi”

I dati 2019 non sono ancora completi ma la sensazione è che l’affare potrebbe farsi ancora più appetibile. Sul mercato infatti sono piombate prepotentemente anche le ABS, i prodotti della cartolarizzazione. Le ABS o asset-backed securities sono titoli strutturati che hanno come sottostante un mix di credito a rischio variabile. Il mondo le ha conosciute soprattutto nel biennio 2007-08 quando il mercato immobiliare americano è crollato trascinando sul fondo le scommesse (a leva, cioè a debito) sulle ABS stesse.

La lezione, in sintesi, è che le securities strutturate sono spesso difficili da prezzare correttamente ma gli investitori disposti ad accollarsi il rischio, di solito, non mancano.

Morale: nell’ultimo anno, notava a dicembre Global Capital, il mercato delle ABS cinesi è cresciuto del 14,4% su base annuale; nello stesso periodo gli investimenti stranieri in questo comparto sono aumentati del 118%. Il mercato resta un parziale Far West con poche regole e scarsa esperienza (le prime ABS sono comparse 4 o 5 anni fa). Ma intanto, dicono gli osservatori, i suoi numeri gli valgono già il secondo posto nella classifica mondiale dietro agli Stati Uniti.

«Una bomba debitoria potenzialmente devastante»

Non è escluso ovviamente che il crescente interesse degli investitori esteri possa contribuire a ripulire il mercato dagli asset più problematici, diluendo magari il rischio complessivo del credito (che poi – oltre a creare liquidità – è ciò che dovrebbe fare la cartolarizzazione). Ma sullo sfondo restano comunque le ombre di sempre.

«La Cina cresce al ritmo più debole da quasi tre decenni» scrive il New York Times, «Il costo della vita aumenta più rapidamente rispetto ai salari, molte famiglie spendono meno e destinano una quota maggiore del loro reddito al mutuo e al pagamento di altri debiti».  Inoltre, rileva ancora il quotidiano, «Anni di indebitamento hanno lasciato nel sistema finanziario miliardi di dollari di pendenze che sono ancora in gran parte nascoste e che alimentano la prospettiva di una bomba debitoria potenzialmente devastante». Ma questa, ovviamente, non è neanche una vera notizia.