Perché il mercato per compensare le emissioni di CO2 non sta funzionando
Solo il 12% delle compensazioni di CO2 si traduce in reali riduzioni delle emissioni. Eppure, il mercato è raddoppiato negli ultimi anni
Tra le più grandi aziende del mondo che hanno annunciato l’obiettivo zero emissioni nette, due su tre fanno ricorso anche alla compensazione delle emissioni di CO2. I principali produttori mondiali di combustibili fossili, le case automobilistiche e le aziende tecnologiche hanno infatti utilizzato centinaia di milioni di crediti di CO2 per poter dire di aver “cancellato” gran parte delle loro emissioni negli ultimi anni, secondo quanto rivelato da un’analisi di Carbon Brief durata cinque anni e pubblicata di recente. Eppure, tale mercato è ancora molto controverso. E non sta contribuendo di fatto alla riduzione delle emissioni di CO2 in atmosfera.
Cos’è la compensazione della CO2 e quanto contribuisce alla riduzione delle emissioni
Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito a un’esplosione della pratica nota come compensazione della CO2. Imprese, organizzazioni e persino individui possono acquistare crediti di CO2 sul mercato volontario (voluntary offset market). L’unità di misura è la tonnellata di emissioni equivalenti di CO2 che è stata – almeno in teoria – rimossa dall’atmosfera altrove, da un progetto che può essere un parco eolico o la tutela di una foresta protetta. Le aziende poi contabilizzano questi “tagli” come propri e li usano per compensare le proprie emissioni mentre lavorano verso obiettivi climatici auto-assegnati (di solito si tratta di diventare net-zero o carbon neutral entro una data fissa).
Nel 2022 sono stati usati 146 milioni di carbon credit, più del doppio rispetto ad appena tre anni prima. I loro effetti sulla riduzione delle emissioni, tuttavia, sono trascurabili. Uno studio in pubblicazione stima, per esempio, che solo il 12% delle compensazioni vendute si traduca in una reale sforbiciata dei gas serra in atmosfera.
Di contro, la crescente domanda ha dato origine a un settore – in gran parte non regolamentato – in cui aziende e Paesi possono pagare intermediari per ridurre le emissioni in altre parti del mondo. Per esempio attraverso i programmi di protezione delle foreste, la piantumazione di alberi, la distribuzione di fornelli a basse emissioni nei Paesi in via di sviluppo.
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Crediti di CO2 “gonfiati”
L’analisi di Carbon Brief si è concentrata su 34 aziende che da sole hanno utilizzato crediti equivalenti a 38 milioni di tonnellate di anidride carbonica nel periodo 2020-2022. Una quantità pari alle emissioni annuali di Etiopia e Kenya messe insieme. Dall’analisi si evince che i principali acquirenti sono stati Shell (9,9 milioni di unità), Volkswagen (9,6 milioni) e Chevron (6 milioni).
Carbon Brief ritiene che quasi la metà dei progetti esaminati (il 47%) abbia sopravvalutato la propria capacità di ridurre le emissioni. Questa operazione di “accrescimento” dei crediti varia a seconda dei progetti e degli intermediari in gioco. Un’inchiesta sui crediti certificati dall’agenzia statunitense Verra, apparsa all’inizio del 2023 sul settimanale tedesco Die Zeit, sosteneva che i risultati di oltre il 90% dei progetti fossero gonfiati.
Altro esempio: quasi tutti i crediti di CO2 che arrivano dalla Colombia sono stati acquistati da Chevron, che ha una lunga tradizione di estrazione di combustibili fossili proprio dal Paese sudamericano. Secondo un’inchiesta della ong Corporate Accountability, il 93% di queste compensazioni sono fasulle o, comunque, gonfiate. Gli attivisti li chiamano “crediti spazzatura”.
Le conseguenze sulle comunità locali
Ma il rapporto tra l’americana Chevron e la Colombia getta anche uno sguardo sul rapporto che i Paesi ricchi hanno con quelli del Sud del mondo, quando si parla di compensazione delle emissioni di CO2. Generalmente, infatti, i primi comprano crediti da progetti che risiedono nei secondi. Molti movimenti li accusano quindi di neocolonialismo, in quanto ampie porzioni di terreno nel Sud del mondo vengono di fatto “bloccate” con l’obiettivo di assorbire la CO2 prodotta nel Nord.
Ci sono anche aspetti sociali da considerare. Addirittura nel 70% dei casi che ha esaminato, Carbon Brief ha rinvenuto conseguenze negative sulle popolazioni indigene. Accade per esempio in Perù, Kenya e Zimbabwe.
Ma i progetti di compensazione esistono anche nel Nord del mondo, a partire dagli Stati Uniti. Dei 2 milioni di carbon credit generati nei Paesi sviluppati, due terzi provengono dai loro confini. Quasi tutti sono stati venduti a società con sede nello stesso Stato, come Microsoft e JP Morgan Chase. Anche qui non mancano le critiche. In un’inchiesta del 2020, Bloomberg accusa GreenTrees di conteggiare due volte gli stessi crediti, o di gonfiare i risultati in termini di emissioni evitate. Tale società che fornisce il 16% dei crediti statunitensi; tra i suoi clienti ci sono anche Shell, Microsoft e Disney.
Le risposte delle multinazionali allo studio di Carbon Brief
Carbon Brief ha contattato le 50 principali aziende in termini di fatturato per dare loro l’opportunità di contestare eventuali errori nei dati di compensazione. Solo 11 hanno risposto. Shell, Amazon, Deutsche Telekom e Google hanno spiegato di voler usare la compensazione solo in aggiunta agli sforzi per evitare e ridurre il più possibile le emissioni. BP ha affermato che intende raggiungere il suo obiettivo di emissioni per il 2030 senza compensazioni, ma queste «potrebbero aiutarci ad andare oltre tali obiettivi».
Il problema centrale della compensazione delle emissioni di CO2 è riassunto da Robert Mendelsohn, professore di Politica forestale ed Economia alla Yale School of the Environment. Riflettendo sui risultati ha commentato a Carbon Brief: «Il mercato dei crediti di CO2 non ha cambiato i comportamenti e quindi non ha portato ad alcuna riduzione dell’anidride carbonica nell’atmosfera. In altre parole, ha raggiunto una mitigazione pari a zero».