Cop sul clima: come funzionano davvero i negoziati internazionali

Chi comanda alle Cop? Come si decide sul clima? Tutto sui negoziati, dai retroscena alle zone riservate, tra pressioni e giochi geopolitici

Daniele Guidi
Daniele Guidi
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«Ogni Cop è come un’assemblea di condominio, in un grattacielo di 197 appartamenti», racconta Jacopo Bencini, presidente dell’Italian Climate Network, in un episodio della newsletter Il Climatariano curata dal giornalista esperto di negoziati sul clima Tommaso Perrone. «Ogni appartamento ha un suo proprietario che partecipa alle riunioni, il leader. Se non può, manda un suo delegato, i negoziatori. La riunione ha un ordine del giorno ed è moderata dall’amministratore di condominio, il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, l’Unfccc». Che oggi è Simon Stiell.

Ma non finisce qui: «Nel condominio ci sono persone ricche e povere, sprecone e frugali, coscienziosi e distratti». Discutono del riscaldamento, cioè delle emissioni. Valutano le spese future e cercano di mettersi d’accordo. Ma per decidere su come rendere il condominio più efficiente serve il consenso di tutti. E spesso basta uno solo condòmino per bloccare tutto. Dietro questa metafora c’è un sistema complesso, multilivello, costruito per tenere insieme quasi 200 Stati con interessi profondamente diversi. Ma come funziona davvero una Cop? Chi decide cosa si discute, dove si tiene, chi ha diritto di parola? E perché, nonostante il peso delle decisioni in gioco, tutto sembra muoversi con lentezza esasperante?

Road to Belém

1. Come si organizza una Cop: logistica, ruoli e regole

Dietro ogni Conferenza delle parti sul clima c’è una macchina organizzativa imponente. A coordinarla, come anticipato, è il segretariato della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) che ha sede a Bonn, in Germania. Dal 2022 il segretario esecutivo è Simon Stiell, ex ministro per il Clima di Grenada, che ha raccolto il testimone da Patricia Espinosa. A lui, all’amministratore di condominio, spetta il compito di garantire che ogni Cop rispetti “l’ordine del giorno”, ovvero le regole procedurali, i tempi, le tappe condivise, partendo da bozze di documenti preparati da negoziatori indefessi che lavorano tutto l’anno per arrivare pronti all’assemblea. Pardon, alla conferenza. Ma non è certo un lavoro che può fare da solo. Nell’organizzazione è coinvolto uno staff fatto di professioniste e professionisti. L’organizzazione di una Cop coinvolge, in particolare, tre livelli:

Il ruolo del Paese ospitante: infrastrutture, sicurezza, logistica

Ogni anno un Paese diverso assume la presidenza della Cop e ne ospita fisicamente i lavori, generalmente tra novembre e dicembre. Questo significa occuparsi di infrastrutture, sicurezza, logistica, accreditamenti, trasporti, alloggi per decine di migliaia di persone provenienti da ogni continente. Nelle edizioni più partecipate, come la Cop28 di Dubai, si è arrivati a ospitare oltre 80mila persone direttamente o indirettamente coinvolte. Serve quindi un centro congressi di grandi dimensioni, accessi differenziati per delegati, società civile, addetti ai lavori. E, soprattutto, una regia che tenga insieme le molteplici esigenze dei dipendenti dell’Unfccc, delle delegazioni dei Paesi parte, delle organizzazioni osservatrici, del mondo dell’informazione.

Il segretariato dell’Unfccc: chi coordina i negoziati

Come anticipato, è l’organo tecnico e amministrativo permanente della Convenzione. Supervisiona l’intero processo negoziale e cura la pubblicazione dei documenti ufficiali, supportando i lavori dei vari gruppi e assicurando la trasparenza del processo. Il segretariato predispone anche i filoni di discussione tematici – come finanza, mitigazione, adattamento, perdite e danni – ognuno con le proprie sessioni, relatori, draft di decisione.

Chi lavora dietro le quinte: staff Onu, volontari e addetti ai lavori

Durante una Cop lavorano migliaia di persone: addetti alla sicurezza, traduttori simultanei, tecnici delle Nazioni Unite, hostess, interpreti, operatori video e stampa. Una parte di queste persone è fornita dall’Onu, ma una gran parte viene messa a disposizione dal paese ospitante. Organizzare un evento del genere, di norma, richiede almeno due anni di preparazione. Una Cop infatti non è “solo” una conferenza: è una città temporanea, con badge, zone di accesso, regole di sicurezza, trattative riservate, conferenze stampa e spazi per la società civile che organizzano eventi paralleli che si svolgono fuori dalle sale ufficiali.

2. Come si sceglie il Paese che ospita la Cop

Ogni Cop è il risultato di un equilibrio geopolitico che parte da lontano. A rotazione, uno dei cinque gruppi regionali delle Nazioni Unite, ovvero Africa, Asia-Pacifico, America Latina e Caraibi (Grulac), Europa orientale, Europa occidentale e altri Stati (che include anche Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda), è invitato a proporre un paese ospitante. All’interno del gruppo si tengono consultazioni. Una volta individuato il candidato, l’offerta viene trasmessa formalmente al Segretariato dell’Unfccc, che valuta se il paese proponente ha tutte le condizioni diplomatiche, logistiche, tecniche e finanziarie per accogliere la conferenza. Se non c’è alcun paese disponibile a ospitare, la conferenza si tiene nella città tedesca di Bonn, sede permanente del Segretariato.

Il caso Cop29: come l’Azerbaigian ha ottenuto la conferenza

L’Azerbaigian è stato selezionato per ospitare la Cop29 del 2024 solo all’inizio dello stesso anno, dopo mesi di stallo. La conferenza spettava al gruppo dell’Europa orientale, ma le profonde tensioni al suo interno e l’invasione dell’Ucraina avevano bloccato il consenso necessario alla candidatura. Per settimane, nessun paese sembrava in grado di ottenere l’appoggio unanime del gruppo. La svolta è arrivata con un accordo trilaterale tra Armenia, Azerbaigian e Russia. L’Armenia ha ritirato il veto su Baku e il gruppo regionale ha potuto ufficializzare la proposta. Un compromesso delicato, che evidenzia quanto le dinamiche geopolitiche possano influenzare anche la diplomazia climatica. La selezione dell’Azerbaigian, un paese ricco di combustibili fossili, ha inoltre riacceso il dibattito sull’opportunità di affidare la presidenza delle Cop a governi che continuano a puntare su petrolio e gas (come avvenuto l’anno prima a Dubai).

Ospitare e presiedere la Cop: un doppio ruolo politico chiave

Ospitare una Cop significa anche assumerne la presidenza. Un ruolo altamente politico che consiste nel guidare i negoziati e facilitare il consenso di una comunità con interessi divergenti, persino opposti. La presidenza è affidata a una figura nominata dal Paese ospitante (di solito si tratta di ministro o di un ambasciatore), che diventa presidente designato. Ciò fino all’apertura ufficiale della conferenza, quando viene eletto formalmente dall’assemblea.

Non esiste una policy specifica dell’Unfccc per gestire eventuali conflitti d’interesse (si veda il caso di Sultan Al Jaber del 2023). Tuttavia esiste un codice di condotta. Secondo la bozza delle regole di procedura, non ancora formalmente adottate ma applicate ogni anno, il presidente non può agire contemporaneamente anche come rappresentante del paese di appartenenza.

Quando presidenza e sede della Cop non coincidono: le eccezioni

In genere, Paese ospitante e presidenza coincidono. Ma ci sono state eccezioni importanti. È il caso, ad esempio, della Cop23 presieduta dalle isole Figi, ma svoltasi a Bonn, per evidenti ragioni logistiche. Oppure della Cop25 del 2019, che doveva tenersi in Cile, ma fu spostata a Madrid a causa delle proteste in corso nel Paese sudamericano. Il Cile, però, ha mantenuto la presidenza dei lavori.

3. Chi fa cosa (e dove): le zone e gli attori della Cop

Come abbiamo visto, le Cop sono complesse sotto ogni punto di vista. Per questo fornire luoghi fisici adeguati, divisi in zone, è più che mai necessario. Ogni zona ha funzioni e accessi differenti. Capire chi fa cosa e dove aiuta a orientarsi nel funzionamento reale dei negoziati.

La blue zone: dove si tengono i negoziati ufficiali tra Stati

Qui si svolgono le trattative vere e proprie tra gli Stati. È uno spazio gestito direttamente dalle Nazioni Unite e l’accesso è riservato alle delegazioni ufficiali, alla rappresentanza del segretariato dell’Unfccc, agli osservatori e ai giornalisti accreditati.

La presidenza della Cop, affidata ogni anno al paese ospitante, guida i negoziati. Il presidente è di solito un ministro e coordina le plenarie, facilita il consenso, propone testi di compromesso e garantisce il rispetto delle regole. Il suo lavoro comincia mesi prima dell’inizio della conferenza con l’obiettivo di costruire relazioni positive e spingere verso un risultato ambizioso. Accanto alla presidenza agisce il segretariato dell’Unfccc, con sede a Bonn. È l’organo tecnico e amministrativo che supporta tutto il processo: organizza le sessioni, gestisce i documenti ufficiali, prepara le bozze negoziali e coordina i gruppi di lavoro. Dal 2022 è guidato da Simon Stiell.

Sempre nella blue zone trovano spazio anche gli osservatori accreditati – parliamo di organizzazioni non governative (ong), comunità indigene, centri di ricerca, sindacati, imprese, movimenti giovanili. Non partecipano direttamente ai negoziati, ma possono seguire molte sessioni, organizzare eventi collaterali (i side events), intervenire in momenti specifici e – soprattutto – fare pressione politica. Sono fondamentali per assicurare trasparenza e inclusività. Tra le organizzazioni più attive in Italia ci sono l’Italian Climate Network ed il think tank per il clima Ecco che forniscono analisi, briefing e traduzioni tecniche utili anche alla stampa.

A proposito di giornaliste e giornalisti, anche loro hanno accesso alla blue zone, ma con badge dedicati e limiti logistici precisi. Non possono, per esempio, assistere ai tavoli ristretti. Ma possono seguire le plenarie, le conferenze stampa, intervistare i delegati e lavorare dal media center, una sorta di grande sala stampa attrezzata per garantire a ogni testata, blog o emittente lo stesso accesso alla strumentazione necessaria per diffondere informazioni, ovunque nel mondo.

La green zone: spazio pubblico per la società civile e le iniziative dal basso

Al di fuori della blue zone c’è la green zone, logisticamente organizzata sempre dal paese ospitante, ma aperta al pubblico (salvo restrizioni locali che di recente hanno fatto discutere). Qui si tengono mostre, incontri, dibattiti, laboratori, spettacoli. È il luogo della società civile più ampia, quella non accreditata all’interno dell’Unfccc, ma comunque coinvolta nel dibattito climatico. Possono partecipare anche le scuole, le università, le comunità o gli enti locali, le startup o le associazioni culturali.

È uno spazio pensato per creare un punto di contatto tra la conferenza ufficiale, spesso “additata” perché agirebbe all’interno di una bolla per nerd, e il mondo reale. E poi qui c’è spazio anche per raccontare come migliorare il grado di consapevolezza attraverso il racconto o la presentazione di progetti e buone pratiche. La distanza tra le due zone è recentemente diventata anche simbolica: spesso ciò che accade nella green zone o per le strade della città ospitante non riesce a scalfire il muro informativo nel quale lavorano senza sosta, giorno e notte, gli sherpa (i funzionari) della blue zone.

4. Come funzionano i negoziati: blocchi, alleanze e regole del gioco

I negoziati all’interno delle Cop sono un mosaico negoziale complesso. Nulla accade in un unico tavolo: si lavora in parallelo su decine di temi – finanza, adattamento, mitigazione, perdite e danni, trasparenza, mercati del carbonio –, ognuno trattato da gruppi con sigle spesso incomprensibili.

A negoziare sono i delegati ufficiali dei 197 Paesi che fanno parte della Convenzione (196 Stati più l’Unione europea). Ma raramente agiscono da soli: si muovono in coalizioni regionali o politiche, per aumentare il peso negoziale. Tra le più attive:

  • G77 + Cina: gruppo ampio di Paesi del sud del mondo, con interessi diversificati ma spesso uniti su finanza e giustizia climatica;
  • l’Unione europea negozia come blocco unico;
  • Umbrella Group: include Stati Uniti, Australia, Canada, Giappone e altri Paesi industrializzati;
  • Aosis: le piccole isole, particolarmente vulnerabili all’innalzamento dei mari;
  • African Group, LMDC (Like-Minded Developing Countries), ALBA, Arab Group, e molti altri.

Le sessioni negoziali avvengono spesso a porte chiuse, con testi in continua revisione. Ogni frase, ogni verbo può cambiare il senso di un’intera decisione. È la cosiddetto wording war, la guerra delle parole: tra uno shall (più stringente) e uno should (che assomiglia a una raccomandazione) passa la differenza tra obbligo e buona intenzione.

Ma il vero nodo è il consensus: nessuna decisione può essere adottata se anche un solo Paese si oppone. Niente voti a maggioranza, niente quorum numerico: tutto deve essere approvato all’unanimità. È il fondamento del multilateralismo climatico, pensato per garantire inclusione e legittimità. Ma spesso è anche il motivo per cui i testi finali vengono annacquati o bloccati all’ultimo minuto. È come se, in una riunione condominiale, ogni decisione dovesse essere approvata da tutti i 197 proprietari. Se anche uno solo – magari il più inquinante o con pochi “millesimi” – si oppone, si rinvia tutto.

In alcuni casi, il consenso viene dichiarato anche senza reale accordo, leggendo velocemente il testo in plenaria e chiudendo il dibattito prima che qualcuno possa formalmente obiettare.

5. Perché pochi Paesi possono bloccare tutto: il problema del consenso

Nel cuore della blue zone si svolgono i negoziati e le trattative tra governi, divisi in gruppi regionali, economici o geopolitici. I più noti sono il gruppo africano, il gruppo dei paesi meno sviluppati (LDCs), l’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis), l’Unione europea, l’Umbrella group (guidato da Stati Uniti d’America, Canada, Giappone e Australia), il gruppo arabo e il grande blocco denominato G77 + Cina che raccoglie oltre 130 paesi del Sud del mondo.

Questi gruppi si coordinano e formano grandi coalizioni fluide. Ma le divisioni interne sono sempre più evidenti e rispecchiano un quadro geopolitico in forte mutamento rispetto agli anni Novanta. L’India, ad esempio, ha spesso assunto posizioni autonome e conservatrici, come alla Cop26 di Glasgow, dove pretese di cambiare l’espressione “phase-out” (abbandono) in “phase-down” (riduzione) relativamente all’utilizzo del carbone, il combustibile fossile più inquinante in assoluto. Alla Cop29 di Baku, invece, ha sollevato forti obiezioni sul modo, oltre che sul contenuto, con cui si è raggiunto l’accordo per l’aggiornamento dei fondi sulla finanza climatica. Una protesta in diretta mondiale che ha causato non poche perplessità sull’intero processo negoziale.

La Cina, primo emettitore mondiale, continua a definirsi un paese in via di sviluppo, ma per la gran parte della comunità internazionale questo non può più essere una definizione accettabile. Pur investendo massicciamente in fonti rinnovabili, Pechino rifiuta ancora obblighi economici e di riduzione delle emissioni e mantiene una posizione volutamente ambigua che mette in difficoltà anche gli stessi paesi con cui condivide l’appartenenza geografica. Tra gli altri attori che tendono a rallentare i negoziati ci sono:

  • il Brasile, che oscilla tra tutela della foresta amazzonica e difesa degli interessi dell’agrobusiness, a seconda del colore dell’amministrazione;
  • l’Arabia Saudita, accusata spesso di bloccare ogni riferimento ai combustibili fossili come causa del problema;
  • gli Stati Uniti che, pur restando essenziali in quanto in vetta a ogni classifica (di emissioni, di ricchezza, di innovazione tecnologica), continuano ad alterare il processo per via di cambi repentini e drastici alla Casa Bianca, da Bill Clinton a George W. Bush, da Barack Obama a Donald Trump;
  • l’Unione europea che è l’unico porto sicuro dell’intero processo negoziale ma che paga il fatto di essere una organizzazione ancora troppo divisa politicamente e quindi debole nei momenti cruciali;
  • i paesi africani che restano uniti perché ancora abbandonati a loro stessi. Chiedono giustizia climatica e fondi per la transizione perché tra i meno responsabili a livello globale della crisi climatica, ma fin troppo toccati dalle perdite e dai danni che causa. E proprio per questa loro vulnerabilità, sono ancora attratti dalle “sirene” dello sviluppo rappresentate da gas e petrolio.

Ma gli attori statali non sono gli unici protagonisti. All’interno della blue zone operano anche organizzazioni internazionali, come il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) o la Banca Mondiale, e istituti di ricerca (tra tutti l’Ipcc). Questi supportano i negoziati con dati, scenari, risorse finanziarie o tecniche. Al loro fianco troviamo le lobby in rappresentanza di interi settori industriali e delegazioni di grandi aziende multinazionali, tra cui anche i rappresentanti delle stesse compagnie petrolifere che dovrebbero essere soggette a transizione. Il loro scopo, ovviamente, è difendere lo scenario business as usual finché possibile.

Alla Cop28 di Dubai, sono stati accreditati oltre 2.400 lobbisti fossili: un numero senza precedenti. In molti casi, queste presenze hanno condizionato l’ambizione degli accordi finali, soprattutto nelle fasi più importanti, quelle a porte chiuse, dove la stampa e la società civile non sono ammesse. Qui si discutono proprio parole ed espressioni fondamentali come le ormai celebri “phase-out” o “transitioning away”.

Tutti questi soggetti, dicevamo, negoziano secondo una regola fondamentale: il principio del consenso. Non si vota, serve l’unanimità. Basta che una sola delegazione (ma che sia ricca o potente, mi raccomando) dica “no” per bloccare una decisione trattata, condivisa e negoziata per giorni o settimane. È già successo ed è per questo che tra le accuse più grandi rivolte alle Cop è il “rischio paralisi”. Ma per quanto imperfetto, il sistema della Cop è ancora l’unico meccanismo in grado di tenere insieme tutti i residenti di questo enorme condominio chiamato Terra. Altrove, lo stiamo sperimentando in questo periodo storico su fronti quali l’economia e la sicurezza, ha vinto l’anarchia. O meglio la legge del più forte che supera ogni trattato, ogni accordo, ogni diritto internazionale o universale che sia.

6. È ancora possibile riformare le Cop?

La strada che porta a Belém, in Brasile, dove si terrà la Cop30 dal 10 al 21 novembre 2025, è stretta e accidentata. E non solo perché logisticamente sta dando non pochi pensieri alle migliaia di persone che dovranno raggiungere la città immersa nell’Amazzonia, ma anche perché si svolge in un contesto internazionale complicato come mai visto nei trent’anni di storia dei negoziati. Un contesto dove il conflitto armato è tornato nelle agende politiche dei paesi occidentali, dove la guerra economica è tornata a essere strumento di potere. Dove i nazionalismi estremi sembrano essere diventati l’assurdo risultato di una globalizzazione turbocapitalista. 

A poche settimane dal prossimo round di negoziati, oltre duecento organizzazioni internazionali hanno firmato un appello congiunto che parla chiaro: il processo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) «è arrivato a un punto di rottura critico». A sostenerlo sono reti storiche della società civile internazionale come il Climate Action Network (CAN), la Global Campaign to Demand Climate Justice (DCJ), Youngo, la Women and Gender Constituency (WGC) e Amnesty International, insieme a decine di movimenti del sud globale.

La loro denuncia è ferma: «I negoziati sul clima hanno sistematicamente fallito nel garantire giustizia climatica e hanno minato il diritto internazionale, emarginando gli Stati più vulnerabili, le popolazioni indigene e la società civile, e consentendo ai paesi più ricchi e ai maggiori inquinatori storici di eludere gli obblighi legali e le responsabilità», si legge nel testo dell’appello. La critica non si limita alle dinamiche negoziali: «I colloqui sul clima si sono svolti in Paesi con una situazione problematica in materia di diritti umani e significativi interessi nel settore dei combustibili fossili. La governance globale del clima è sempre più percepita come fuori dal mondo, guidata da interessi acquisiti e con una scarsa rilevanza e fiducia». Insomma, il rischio è che la situazione geopolitica esterna alla roccaforte della blue zone faccia sistema per distruggere ciò che resta dei negoziati per il clima.

La soluzione? Per le organizzazioni firmatarie occorre una riforma radicale che parta da una revisione dei processi decisionali, oggi basati sul principio del consenso, che permette a pochi governi – spesso tra i più responsabili della crisi climatica – di bloccare gli accordi. L’appello propone invece un passaggio a un sistema più trasparente e vincolante, con votazioni a maggioranza e garanzie di equa partecipazione. Per chiudere con le parole di Jacopo Bencini, con cui abbiamo cominciato questa tappa, «siamo consapevoli che le richieste contenute in questo appello sono ambiziose e, visto il contesto internazionale, forse irrealistiche. Ma proprio quando si è vicini al punto più basso è necessario popolare il campo con grandi idee».

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