Cop della Foresta: l’Amazzonia tra tutela, sfruttamento e diritti indigeni
La Cop30 a Belém riaccende i riflettori su Amazzonia, petrolio e popoli indigeni, protagonisti della difesa del bioma e dei diritti
Dopo tre conferenze sul clima (Cop) consecutive ospitate in Paesi produttori di petrolio, l’annuncio del Brasile di organizzare a Belém la “Cop della foresta amazzonica” aveva acceso grandi aspettative. Non solo per la centralità dell’Amazzonia nella lotta alla crisi climatica, ma anche perché per la prima volta la conferenza si sarebbe svolta in una regione dove milioni di persone vivono da secoli in relazione diretta con la foresta.
Le popolazioni indigene dell’Amazzonia custodiscono conoscenze tradizionali fondamentali per la tutela del bioma e ne difendono quotidianamente i confini da deforestazione, estrazioni minerarie e invasioni illegali. Sono loro le prime sentinelle del cambiamento climatico e al tempo stesso le prime vittime della violenza ambientale e sociale che attraversa la regione. Non a caso, molte comunità chiedono da anni che il loro ruolo sia riconosciuto non solo nei negoziati internazionali, ma anche nelle politiche ambientali brasiliane.
Alla guida del ministero dell’Ambiente, incaricato di coordinare l’evento, c’è Marina Silva, figura simbolo della protezione delle foreste tropicali. Ma le contraddizioni della politica ambientale del Paese – come l’autorizzazione all’esplorazione petrolifera nel margine equatoriale – sollevano dubbi sulla reale capacità del governo di garantire non solo la tutela dell’Amazzonia, ma anche il rispetto dei popoli originari, che restano in prima linea contro disboscamento, estrazioni e violenze.
Chi è Marina Silva
Di origine amazzonica e afrodiscendente, seringueira e insieme a Chico Mendes attivista sindacale, l’ex-candidata alla Presidenza della Repubblica Marina Silva veniva nominata per la seconda volta da Luiz Inácio Lula da Silva ministra dell’Ambiente. Era il 4 gennaio del 2023.
Appena firmato il giuramento, in un gesto spontaneo e pacificatore, ricevette dal presidente un bacio sulla mano. Silva, infatti, si era dimessa nel 2008, durante il secondo governo Lula, dopo sei anni a capo dello stesso ministero, a causa di divergenze strategiche sulla gestione della politica per la regione amazzonica. Alcuni mesi più tardi, in un evento che non contava sulla sua presenza, sarebbe stato annunciato che il disboscamento era sceso del 45% in Amazzonia. La maggiore riduzione mai ottenuta fino ad allora in Brasile da quando si monitora con regolarità la perdita di vegetazione nella foresta tropicale.

Uno degli strumenti più importanti per raggiungere il risultato era stato il Piano Interministeriale di Protezione dell’Amazzonia (Ppcdam). Approvato all’inizio della sua gestione, il documento indicava la strada per il contrasto alla distruzione dell’Amazzonia.
Marina Silva, un ritorno che ridà speranza agli ambientalisti
Per ambientalisti ed elettori, il ritorno di Marina Silva rappresentava più del semplice insediamento di un’alleata a dirigere la politica ambientale brasiliana. C’era l’aspettativa che venissero riprese quelle azioni che durante il suo primo passaggio al ministero avevano portato a una caduta drastica del disboscamento.
«La nomina di Marina ha segnato il ripristino in Brasile di una governance ambientale che era stata totalmente distrutta. E la ripresa del Ppcdam, questa volta con maggiore supporto della presidenza della repubblica», afferma Claudio Angelo, coordinatore di Politica internazionale dell’Osservatorio sul Clima, la principale rete della società civile brasiliana che si occupa dell’agenda climatica. Secondo il quale «la cosa più importante era avvenuta prima delle elezioni, con la consegna a Lula di una lettera che conteneva 23 impegni ambientali, che l’aveva trasformata nella migliore candidata per l’ambiente del campo democratico. Lula, anche se avesse voluto, non sarebbe più potuto tornare indietro».
Tuttavia, ripetere i successi del passato non era affatto scontato. La visione delle organizzazioni non governative sull’eredità lasciata dall’amministrazione precedente è confermata dal rapporto di diagnosi redatto dalla commissione di transizione tra i governi Bolsonaro e Lula: «Il governo Bolsonaro ha promosso lo smantellamento deliberato e illegale delle politiche, del sistema normativo, degli spazi di controllo sociale e della struttura dello Stato legati alla preservazione ambientale».

Stuart Wilson/Cop28
I tagli del governo Bolsonaro all’Amazzonia
Per quanto riguarda la struttura, l’esecutivo di estrema destra aveva tagliato l’organico dell’ente di controllo e monitoraggio ambientale (Ibama) da 1.800 a 700 unità. Sul piano finanziario, alla fine del mandato, aveva ridotto di circa un quarto del budget del ministero dell’Ambiente, riducendolo di 900 milioni di real (pari a circa 120 milioni di euro al cambio corrente). E al contempo aveva paralizzato i fondi Amazzonia e Clima, che attraverso contributi internazionali finanziavano attività di organi pubblici e grandi progetti del terzo settore.
Nell’ambito delle politiche ambientali aveva poi bloccato la creazione di nuove aree protette e interrotto in tutto 24 politiche ambientali, tra cui proprio il Piano Interministeriale di Protezione dell’Amazzonia.
Il nuovo Piano di protezione dell’Amazzonia (Ppcdam)
Nei primi sei mesi del suo nuovo mandato la squadra di Marina Silva ha preparato, passato al vaglio di tredici ministeri, sottoposto a consultazione pubblica e infine fatto promulgare dal presidente della Repubblica il Ppcdam. Nominalmente, era lo stesso documento che nella sua precedente gestione era stato alla base del suo successo. Nella forma e sostanza presentava alcune novità.
«Se si confronta l’ultimo piano con le versioni precedenti, si vedrà un cambiamento molto significativo in termini di contenuto. Ma anche di formato», spiega Raoni Rajão, docente dell’università di Minas Gerais, ex direttore del ministero dell’Ambiente e uno dei principali artefici della preparazione del piano attuale «Il Ppcdam – prosegue – storicamente è un documento che presenta le azioni del governo in maniera blanda. Contiene una diagnosi tecnica, è ben fatto, ma manca di profondità. In questa nuova versione abbiamo voluto aggiornarlo allo stato dell’arte delle conoscenze scientifiche sulla deforestazione in Amazzonia. Introducendo anche un livello più alto di analisi critica».
Con quasi 100 pagine e 142 obiettivi stabiliti solo per il primo anno di attività, il rapporto identifica, in primo luogo, le dinamiche emergenti della deforestazione in Amazzonia: «Il piano afferma che il disboscamento illegale dell’Amazzonia legato alle catene agricole e zootecniche ha un ruolo molto importante». Quindi, «tratta dell’importanza delle grandi opere infrastrutturali nell’interiorizzazione della deforestazione nel bioma. C’è anche una discussione sull’indebolimento delle unità di conservazione che non sono state implementate in maniera soddisfacente. E sugli insediamenti rurali che sono in un processo di perdita di controllo abbastanza significativo. Quindi mette il dito nella piaga».

© Schnaider/iStockPhoto
La riduzione del disboscamento: risultati e limiti
In seguito il Ppcdam elenca le linee direttrici dell’intervento statale: «Le linee di azione sono più di 190. Può sembrare un livello di dettaglio esagerato, ma è stato molto importante perché io, almeno quando ero lì come direttore, ero consapevole che la luna di miele con la questione della deforestazione sarebbe finita. Avere azioni ben definite in un piano che non appartiene solo al ministero dell’Ambiente, ma all’intero esecutivo federale, significa creare le basi per sviluppare ulteriori interventi».
Dall’inizio del mandato ad oggi, a poco più della metà della sua durata, secondo le stime del Programma di monitoraggio della perdita forestale in Amazzonia dell’agenzia spaziale brasiliana (Prodes/Inpe), c’è stata una riduzione del 30,63% del disboscamento. Nelle parole della ministra, pronunciate nell’ultima Giornata dell’ambiente, questo risultato è stato possibile grazie alla «lotta contro i crimini ambientali da parte dell’Ibama, della polizia federale, di ministeri, governi statali, amministrazioni locali e comunità che collaborano insieme».
Sul terreno, il dispiegamento del Ppcdam si è tradotto in azioni concrete che hanno coinvolto diversi enti pubblici. E hanno attaccato le cause del disboscamento che erano state identificate. Uno dei casi più emblematici è stato la liberazione della terra indigena Apyterewa, territorio del popolo Parakanã. Con un’estensione quasi pari a quella di Cipro, nel cuore dello stato del Pará. Un’operazione che ha rivelato, tra successi e incertezze, tutta la complessità della politica ambientale brasiliana.
Popoli indigeni e terre pubbliche: il caso Apyterewa
Il gruppo operativo formato dal ministero dei Popoli originari, dall’Ibama e dalla presidenza della Repubblica si è insediato il 2 ottobre 2023 nelle due basi di monitoraggio e assistenza dello stato brasiliano situate ai confini della terra indigena Apyterewa. Così iniziava la seconda operazione per la liberazione della regione localizzata sulle rive del fiume Xingu, affluente del Rio delle Amazzoni, che si sarebbe protratta per circa 180 giorni.
Nel 2016 un primo tentativo era parzialmente fallito. All’espulsione almeno 500 persone che controllavano più dell’80% dell’area aveva fatto seguito il ritorno di un numero maggiore di coloni illegali negli anni seguenti. La terra Apyterewa è la dimora del popolo Parakanã. Si tratta di un gruppo di recente contatto che ha avuto le prime interazioni con non indigeni all’inizio degli anni Settanta, circa 50 anni fa. I Parakanã vivono in sedici villaggi, la maggior parte dei quali schiacciati dalla pressione degli invasori sul margine ovest della Terra Indigena lungo lo Xingú.

Un’assemblea Parakanã © Paulo Bull
L’invasione della Terra Indigena Apyterewa
Altri pochi villaggi si trovano più all’interno, addentrandosi per vari chilometri verso est, risalendo il corso del Bom Jardim, un piccolo fiume o igarapé come vengono chiamati i piccoli corsi d’acqua in Amazzonia. Il corso d’acqua poi curva all’improvviso a sud, ma il rischio di spingersi verso il centro della regione è grande. Incontri indesiderati con occupanti, anche armati, sono frequenti e non di rado scaturiscono in minacce e violenze fisiche contro gli indigeni.
Gli intrusi vi arrivano da sud, in grande parte dalla frazione della città, dallo Stato del Pará, di São Félix do Xingu, Taboca, usando ponti illegali che scavalcano l’igarapé São Sebastião. Una volta dentro percorrono le vecchie strade illegali lasciate dalle segherie che in passato occupavano la regione per l’estrazione di legname pregiato come il mogano. Taboca è un agglomerato consolidato di case precarie e commerci, circondato da aree di pascolo e piccole miniere a cielo aperto. Non di rado nei terreni che circondano la frazione si possono vedere vacche denutrite che cercano un po’ di cibo tra le vasche usate per l’estrazione di oro o di altri minerali.
«Mi era sembrato piuttosto ingenuo da parte di quelle persone pescare e nuotare nell’igarapé São Sebastião quando il colore era caratteristico di acqua contaminata dalle attività minerarie. Visivamente non capivano l’impatto dell’estrazione aurifera sulla salute umana. Era gente che veniva da fuori e portava in quel luogo le proprie esperienze precedenti di come vivere l’ambiente e i fiumi». Così descrive Chris Moye, dirigente di EIA, un’organizzazione della società civile americana, la sua percezione degli abitanti di Taboca in occasione di una visita sul campo.
Villaggi abusivi e pressioni sugli indigeni Parakanã
Più a est, ma sempre a ridosso del confine sud di Apyterewa, si erano stabiliti addirittura al suo interno. Il piccolo villaggio abusivo Vila Renascer contava circa 600 residenti, 200 abitazioni, due benzinai e almeno una chiesa evangelica. Tra gli abitanti c’è di tutto: persone in cerca di fortuna, ma che trovano solo lavoro precario, qualche commerciante improvvisato e proprietari terrieri sia piccoli che grandi con fattorie illegali all’interno di Apyterewa.
La legge brasiliana vieta ai non-indigeni di risiedere nei territori. Ma chi ci viveva in buona fede, ossia prima della loro delimitazione ufficiale, ha diritto a un indennizzo. L’apertura clandestina di aree seguita dall’uso del fuoco per togliere la vegetazione in eccesso ha messo per vari anni la Terra Indigena nella lista dei territori più disboscati.

© Marco Montanari
Allevamento e cacao: l’economia illegale dentro Apyterewa
Tra gennaio e dicembre del 2022 sono stati distrutti più di ottomila ettari di foresta amazzonica. Il sistema illecito che vigeva al suo interno includeva principalmente l’allevamento, ma anche in anni più recenti la produzione di cacao.
I bovini allevati abusivamente – si stima circa 60mila animali – erano poi abbattuti da imprese di carne con stabilimenti in aree vicine alla regione dei Parakanã. Tra queste c’erano anche grandi gruppi esportatori di carne e cuoio, come hanno mostrato inchieste giornalistiche e investigazioni della magistratura.
Gruppi di potere formati da politici – qualcuno con storie antiche di illegalità legate alla terra indigena – e proprietari terrieri locali avevano creato un’estesa rete d’influenza che nel corso degli anni aveva agito per la riduzione dell’estensione di Apyterewa.
Il popolo Parakanã, oltre all’indisponibilità delle sue terre e alle minacce, subiva diversi tipi di assedio che includevano tentativi di corruzione. Tutto nella speranza di dividere la comunità. Paulo Bull, antropologo e dirigente dell’associazione Tatot’a, una di quelle che difendono il popolo Parakana, descrive uno dei momenti più difficile che la comunità ha affrontato negli ultimi anni: «È stato il giorno del fuoco. Quando allevatori e cercatori d’oro della regione si sono riuniti per appiccare incendi non solo dentro il territorio, ma in tutta la zona dove si trova la terra indigena. Questo fatto ebbe un grande impatto sulla struttura della comunità. Poiché una volta messa sotto pressione e soffocata da questo evento, cedette. E a un certo punto accettò di negoziare un’iniziativa assolutamente illegale, ovvero la riduzione del suo territorio».

Il “giorno del fuoco” e la resistenza dei Parakanã
Non è stato facile garantire che lo Stato si impegnasse in un secondo tentativo di ripristino del controllo di Apyterewa. Anche se il suo usufrutto è un diritto costituzionale. Ci sono voluti pressioni a livello nazionale e internazionale, molteplici viaggi alla capitale brasiliana – che dista più di 1.600 chilometri dalla terra indigena, la stessa distanza che c’è tra Palermo e Aosta – per partecipare a riunioni con membri dell’esecutivo, parlamentari e giudici della Corte Suprema responsabili per il processo di liberazione.
«Per noi è stata una cosa molto difficile all’inizio. Abbiamo dovuto correre dietro al governo perché la nostra Terra fosse liberata, con molti politici che volevano ostacolare il lavoro dell’esecutivo. È stata una campagna che è durata molto, ma, alla fine, è andato tutto bene», spiega Wenatoa Parakana, presidente dell’Associazione Tatot’a.
Infatti, nel dicembre del 2023, dopo un processo rapido ma incerto, l’ultimo invasore insieme all’ultimo capo di allevamento sono usciti dalla terra indigena. Alcune settimane dopo, ricevuti dalle giovani e vecchie guide dei Parakanã in abiti e pitture tradizionali in uno dei villaggi più importanti della Terra indigena che porta lo stesso nome, Apyterewa, la ministra dei popoli indigeni Sonia Guajajara ha restituito il controllo della Terra Apyterewa ai Parakana.
«È stato molto emozionante quando ci hanno riconsegnato la nostra terra senza nessun toriá (uomo bianco, ndr) al suo interno», racconta ancora Wenatoa. «Il nostro territorio è il futuro dei nostri figli, se toriá [uomo bianco] fosse ancora dentro non potremmo garantire loro nulla. Il territorio Apyterewa è dove viviamo, ci alimentiamo e che ci fornisce il nostro sostentamento».

La restituzione della Terra Apyterewa ai Parakanã
Nei mesi successivi al ripristino del controllo sulla regione da parte dei Parakana, il disboscamento è diminuito del 97%. Confermando la teoria delle istituzioni che per l’Amazzonia il controllo delle terre pubbliche era una delle soluzioni per mantenere la foresta tropicale in piedi.
Ciononostante, altre preoccupazioni si sono concretizzate. Nei mesi seguenti alla liberazione sono stati registrati più di 80 focolai di incendi. E i Parakanã hanno subito diversi attacchi da parte di criminali armati che ancora non si arrendono all’idea di lasciare l’occupazione illegale del territorio indigeno e che la comunità si riappropri delle aree disoccupate.
«La nostra paura è che gli invasori appicchino incendi nel nostro territorio. È di pochi giorni fa la notizia che c’è stato un altro rogo vicino a un nuovo villaggio. Loro continuano a entrare nella nostra terra. È una situazione molto difficile, ma non ci fermiamo. Continueremo a esigere che il governo intervenga», conclude Wenatoa Parakana, facendosi voce di tutto il suo popolo.

© Marco Montanari
Verso la Cop30: nuove sfide per l’Amazzonia
Nel luglio del 2025 sono stati pubblicati gli ultimi dati sul disboscamento. Le notizie non sono tutte positive. A soli quattro mesi dalla Cop di Bélem è stato registrato un aumento del 27% della perdita forestale in Amazzonia rispetto al primo semestre dell’anno precedente.
La perdita però è differente dal passato. Non è più causata dal taglio della foresta, ma dalla sua progressiva degradazione fino al punto di non riuscire più a rigenerarsi. Gli incendi ne sono la causa principale. Anche se l’amministrazione aveva identificato il fenomeno come priorità, i dati mostrano che le sue azioni non si sono ancora rivelate efficaci. E secondo gli specialisti le misure governative avrebbero già raggiunto il loro effetto massimo. Con la Cop alle porte e la stagione secca che si avvicina – anche se per quest’anno le previsioni sono più positive rispetto agli anni passati – resta da vedere in quanto tempo e a quali costi Marina e la sua squadra riusciranno a superare anche questa crisi.





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