La crisi climatica va combattuta anche con e per le donne
La crisi climatica aggrava le disuguaglianze di genere. Ma le donne possono diventare motori del cambiamento
Uno degli aspetti più interessanti della lotta alla crisi climatica è che include in sé, quasi necessariamente, tutte le altre lotte importanti della nostra epoca. Non c’è vero ecologismo senza antirazzismo e senza anticolonialismo. E non c’è vero ecologismo senza femminismo. Forse non è immediata la connessione, a prima vista. Ma chi avesse dei dubbi può consultare, per esempio, il report Gender Equality in Times of Crisis del Social Institutions and Gender Index (SIGI), giunto alla sua quinta edizione (la precedente era uscita nel 2019) e uscito a fine luglio durante la Woman Deliver 2023 Conference a Kigali, in Rwanda.
Il rapporto analizza l’andamento degli ultimi quattro anni
Il report è basato sui dati SIGI 2023 pubblicati a marzo scorso in occasione della sessantasettesima sessione della Commissione sullo status delle donne nelle Nazioni Unite. Analizza la discriminazione di genere in 179 Paesi nel periodo di tempo che va dal 2019 a oggi. Quel che emerge è che dei progressi ci sono stati, ma non bastano e anzi c’è da accelerare.
Anche grazie alla lotta costante portata avanti dalle associazioni femministe, in questi quattro anni molti Paesi hanno varato riforme giuridiche per tutelare le donne. In particolare affrontando i temi della violenza, della prevenzione dei matrimoni infantili, della rappresentanza politica femminile. Ma i passi avanti non sono omogenei: l’aborto quand’anche legale è minacciato nella pratica in molti Stati (stando ai dati del 2020, in Italia circa 7 medici su 10 sono obiettori, come testimonia l’Istituto Superiore di Sanità). E sul piano della rappresentanza i progressi fatti sono lontani dall’essere soddisfacenti.
Le donne guidano solo il 15% delle aziende di tutto il mondo
Il 40% delle donne vive in nazioni in cui la discriminazione di genere è alta o molto alta, con enormi disparità relativamente alla divisione del potere. Le donne sono a capo solo del 15% delle aziende in tutto il mondo e ricoprono solo il 25% delle posizioni dirigenziali, nonostante 93 Paesi adottino un sistema di quote. Che magari garantisce l’accesso ma ha poca efficacia sulla crescita all’interno di una data carriera.
Non stupisce se si pensa che in casa le donne dedicano ben più del doppio del tempo degli uomini alle attività di cura e lavoro domestico rispetto agli uomini (2,6 volte le ore dedicate da un uomo), nei Paesi a basso reddito. Sono responsabili dell’approvvigionamento idrico domestico, dell’irrigazione delle case e della fornitura di energia per cucinare e riscaldare. A questo si aggiunge un ineguale accesso all’eredità (nel 20% dei Paesi) e il rischio in certe zone di matrimonio precoce e forzato.
È in famiglia che resistono le più forti disuguaglianze di genere
È proprio nella sfera familiare infatti che le differenze restano più marcate. Ma è un circolo vizioso: al diminuire dell’agency delle donne corrisponde una maggiore esposizione a violenze, violazione di diritti sessuali e riproduttivi, fino al minor potere decisionale sulla sfera pubblica. E quindi, di nuovo: leggi pensate dagli uomini, fatte dagli uomini e quindi minor spazio per le donne. Lo stesso vale nella sfera privata: se il “decisore” finale è il padre o il partner, le regole domestiche seguiranno. E il tempo e la possibilità delle donne di partecipare alla sfera pubblica diminuirà di nuovo.
Dei quattro capitoli che compongono il report, l’ultimo porta il seguente titolo: Empowering woman to become agents of change for a climate-resilient world. Ovvero «dare potere alle donne affinché diventino agenti del cambiamento per un mondo resiliente di fronte al riscaldamento globale». «Allo stesso modo – si legge – le gerarchie tradizionali basate sul genere all’interno della famiglia influenzano negativamente la capacità delle donne di far fronte ai disastri indotti dai cambiamenti climatici».
In caso di eventi estremi donne e bambini hanno 14 volte più probabilità di morire degli uomini
E infatti donne e bambini rischiano 14 volte più degli uomini di morire durante una catastrofe naturale: il 70% dei morti a causa dello tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano era costituito da donne. Così come il 75% dei morti in Francia durante l’ondata di caldo del 2003. Eppure, essendo il rischio climatico gestito soprattutto dagli uomini, il 60% delle strategie di sviluppo a lungo termine a basse emissioni continua a non avere una prospettiva di genere.
Un altro mondo
Perché per appianare le disuguaglianze climatiche dobbiamo tassare i ricchi
Anche all’interno dei singoli Stati, c’è chi provoca la crisi climatica e chi la subisce. Si chiamano disuguaglianze climatiche
Come abbiamo visto per esempio con il Covid ma anche allo scoppio di conflitti bellici, quando i governi si trovano di fronte a minacce esterne tendono a spostare risorse su settori che sembrano diventare prioritari. Ciò rischia di esacerbare le disuguaglianze: l’accesso a servizi per la salute sessuale e riproduttiva e l’assistenza sanitaria materna o la contraccezione si fanno più difficili. Mentre i matrimoni precoci diventano una scorciatoia per mettere al riparo i patrimoni delle famiglie. Così, durante una siccità o in seguito a un evento estremo il lavoro di cura non pagato aumenta a dismisura e ricade principalmente sulle donne (per esempio ci metteranno molto più tempo a procurarsi l’acqua, e così via).
La crisi climatica potrebbe essere, invece, anche un’opportunità
La crisi climatica tende quindi ad aggravare la situazione delle donne in difficoltà. A meno che, invece, non venga vista come un’opportunità. Accrescere l’empowerment delle donne, colmare i divari, mettere l’uguaglianza al centro, includere le donne nei processi decisionali garantisce, secondo il report SIGI, una gamma più diversificata di opinioni. Nonché competenze e prospettive. Rafforzando così le strategie di mitigazione e adattamento.
Per fare un esempio, si può prendere l’agricoltura (ma si parla anche del campo delle rinnovabili o dell’apporto che darebbero le conoscenze e l’esperienza delle donne indigene se coinvolte nei processi decisionali). È dimostrato che un’agricoltura sostenibile contribuisce alla crescita economica inclusiva. Ad oggi, globalmente, ben il 25% delle donne lavora in agricoltura: come accade però negli altri campi, anche qui sono raramente loro a prendere decisioni.
Invece un’agricoltura ecologica e su piccola scala applica più facilmente soluzioni intelligenti dal punto di vista dell’inclusione di genere. In altre parole, consente a un maggior numero di donne di entrare a far parte delle catene del valore agricolo, aumentandone responsabilità e agency.
Ecologia e diritti delle donne: due sfide da affrontare insieme
Quel che emerge, insomma, è che, da una parte, le discriminazioni di genere rendono più vulnerabili le donne anche relativamente alla crisi climatica. Dall’altra, che le battaglie femministe e per la parità di genere possono apportare molto anche sul piano ecologico. Le due lotte si intrecciano e intersecano, non esistono una senza l’altra.
Il Rapporto SIGI 2023 si conclude con alcune raccomandazioni indirizzate agli attori pubblici e privati della società civile: esorta a migliorare l’accesso alle informazioni sulla mitigazione del rischio di catastrofi ambientali e ad affrontare i pregiudizi di genere che limitano le opportunità delle donne in settori chiave come quello energetico (ad ora sono solo il 32%). Spinge a emanare leggi a favore dell’uguaglianza di genere e a modificare quelle discriminatorie. E invita a coinvolgere in questi processi le organizzazioni e i movimenti femministi già attivi dal basso, forse perché è soprattutto da lì che arrivano saperi e pratiche situate, reali, quotidiane ed efficaci.