Coronavirus & crisi. Il debito sale e spinge in su le vendite di alcolici

Sguardo settimanale sulla crisi da Covid19. Terza puntata dedicata a due tipiche conseguenze dello stress: l'indebitamento e il consumo di alcol

Matteo Cavallito
Matteo Cavallito
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Due le notizie principali della settimana: la prima è che abbiamo un problema con l’alcol; la seconda è che lo abbiamo anche con il debito. Ma, se in un caso l’economia trova uno spazio di respiro, nell’altro il rischio assuefazione apre scenari sempre più inquietanti. Il progressivo allentamento del lockdown globale, in altre parole, potrebbe ricondurre i consumatori a un approccio più mite con la bottiglia, fin qui è lecito supporlo. Ma dalla dipendenza da deficit, presumibilmente, sarà assai più difficile uscire in tempi brevi. E le conseguenze non saranno cosa da poco.

Un brindisi a Wall Street

Lasciamo un attimo da parte il debito per concentrarci su bollicine et similia, che di questi tempi sembrano andare molto forte. Gli americani non possono uscire, ma nulla vieta loro di bere a casa, osserva il Wall Street Journal. Tanto che nell’ultima settimana di marzo, riferisce il quotidiano, le vendite di alcolici nei negozi sono aumentate del 22% rispetto al medesimo periodo dello scorso anno. Ma il botto lo ha fatto il commercio on line: secondo la società di ricerca Nielsen, nella terza settimana di marzo le vendite di alcolici via internet in America sono salite del 243%.

Alla fine dello scorso mese gli utenti di Drizly, una app di alcohol delivery attiva negli USA, sono aumentati del 1.600% su base annuale.

Il trend ha avuto un chiaro impatto in borsa, almeno per tre titoli attualmente sotto la lente. Le azioni Brown-Forman Corporation, storico colosso del Kentucky e produttore di uno dei più iconici whisky USA, sono salite del 13,6% nell’ultimo mese; bene anche la newyorchese Constellation Brands che registra un +14,1%. Il grande balzo però viene da Boston Beer Company il cui titolo è aumentato di 26 punti percentuali in 30 giorni.

Mezzo Pianeta non regge il debito

I numeri del Regno Unito ricalcano il trend statunitense e la correlazione con il (legittimo) disagio da lockdown, coronavirus e affini è scontata. «Come documenta ampiamente la letteratura medica, il consumo di alcol può aumentare nei momenti di maggiore tensione», ha dichiarato al Guardian Rajita Sinha, psichiatra dell’Università di Yale. «Ma la vera domanda è: ci sono strategie alternative e più salutari per gestire lo stress?». Interrogativo interessante, valido indubbiamente per tutti quei fenomeni che tendono ad espandersi nei momenti difficili: a partire dal ricorso al debito.

E qui veniamo alla seconda parte della storia e ai relativi allarmi. Ad oggi oltre 100 Paesi si sono già rivolti al FMI per chiedere aiuto, ha ricordato nelle scorse settimane la direttrice della stessa istituzione, Kristalina Georgieva. Metà del Pianeta, insomma, non riesce a reggere gli attuali livelli di indebitamento in condizione di recessione globale. Il mercato, evidentemente, prezza un rischio troppo alto e il Fondo diventa l’unica alternativa. Auguri.

Quei $3,9 trilioni di debito in scadenza

I Paesi poveri e le nazioni emergenti (Low and Middle Income countries) hanno un debito estero complessivo da 11 mila miliardi di dollari, ricorda il vicedirettore del programma Global Economy and Development della Brookings Institution, Homi Kharas.

Oltre un terzo dei prestiti, per un totale di 3,9 trilioni di dollari, dovrà essere restituito quest’anno.

«In circostanze normali – scrive Kharas – gli importi principali verrebbero semplicemente rifinanziati sul mercato dei capitali o sarebbero compensati da nuovi esborsi da parte dei finanziatori esistenti. Ma le circostanze non sono normali. I mercati del credito si sono contratti, gli spread sono aumentati e molti Paesi si trovano ad affrontare una riduzione molto consistente dei ricavi in valuta estera». Morale: rischiano il default. E sulla linea del fronte, tanto per cambiare, c’è Buenos Aires.

Argentina: nuovo braccio di ferro con i creditori

Il 22 aprile, come previsto, l’Argentina non ha saldato una rata da 500 milioni di dollari con i creditori. Il Paese è virtualmente in bancarotta, status che dovrebbe essere raggiunto ufficialmente il 22 maggio, una volta passato il cosiddetto periodo di grazia di 30 giorni che scatta quando una cedola non viene pagata. Buenos Aires punta a cancellare 41,5 miliardi di dollari di debito estero, quasi 2/3 del valore dei titoli coperti dalla legislazione internazionale (66,2 miliardi). Un particolare importante visto che su questi bond pesa il precedente della vittoriosa causa intentata dal fondo Elliott e conclusasi con il contestato accordo firmato nel 2016 dall’allora presidente Mauricio Macri.


Argentina: evoluzione del rapporto debito/Pil 2010-19. Fonte: tradingeconomics.com

I creditori più temibili, anche in questo caso, sono i fondi esteri. Tra questi ci sono major come AllianceBernstein, Amundi e BlackRock che detengono attualmente un quarto dei titoli emessi dall’Argentina negli ultimi quattro anni. Il ministro delle finanze Martín Guzmán ha offerto un concambio a 37 centesimi per dollaro (ovvero nuovi bond con un valore ridotto di oltre il 60%) mentre i creditori – che hanno comprato i titoli argentini in saldo sul mercato secondario – puntano a incassare un valore minimo superiore al 45% del valore nominale. Entrambe le parti al momento non sembrano intenzionate a cedere.

Bce in soccorso dell’Italia

Il problema non riguarda solo i Paesi emergenti. Nei momenti di crisi, come si diceva, il peso dell’indebitamento tende ad aumentare, in parte perché si fa maggiore ricorso al finanziamento per sostenere la spesa pubblica; in parte perché la recessione spinge il rapporto debito/Pil verso vette inesplorate. Vale per tutti, anche per noi. Martedì l’agenzia Fitch ha declassato il rating sovrano dell’Italia a BBB- con outlook stabile, a un solo gradino dall’area junk. L’ipotesi è che nel corso del 2020 il debito possa salire fino a quota 156% del Pil.

Un ulteriore downgrade farebbe piombare i titoli italiani in territorio spazzatura ma – ed è questa l’unica buona notizia – non impatterebbe sul programma di sostegno della Bce che, qualche giorno prima, aveva fatto sapere di essere pronta ad acquistare anche gli asset finanziari speculative grade (quelli con una valutazione di rischio sotto la tripla B, appunto). Il vero problema è legato ai fondi di investimento con un mandato di rischio moderato che di regola non possono detenere titoli junk. Una retrocessione, in altre parole, scatenerebbe un’ondata di vendite sui Btp producendo un rialzo dei rendimenti (e dello spread) sul mercato. E a quel punto, nonostante la Bce, la situazione potrebbe diventare davvero insostenibile.