La protesta degli agricoltori ci riguarda. Perché a rimetterci siamo anche noi

Quello che non funziona è la speculazione. Guadagnano le multinazionali della distribuzione, ci rimettono agricoltori e persone comuni

Proteste degli agricoltori francesi © Delpixart/iStockphoto

La protesta degli agricoltori continua. I trattori bloccano le strade e assediano i palazzi del potere. Dopo l’Olanda, la Romania, la Polonia, la Francia, l’Italia e la Germania, sono arrivati a Bruxelles. Dove si decide il loro destino. La protesta continua, e non accenna a fermarsi. Perché non si vede via di uscita. Il sistema che governa la produzione agricola è sbagliato in sé, e non certo per le leggi che cercano di tutelare l’ambiente. È sbagliato perché il libero mercato non funziona. È sbagliato perché, come ha spiegato su queste pagine il professor Alessandro Volpi, il problema è che la filiera dell’agricoltura è oramai in mano ai mercati finanziari.

Il problema è che gli agricoltori non guadagnano. Lavorano in perdita. Per loro produrre un bene costa più del prezzo minimo cui possono venderlo. Il problema è che su quei beni guadagnano altri. Sono i passaggi che avvengono tra i campi dove si produce il bene e la tavola dove si consuma. Passaggi che sono completamente slegati dai costi di produzione, schiacciano il produttore e favoriscono le multinazionali della grande distribuzione. O le speculazioni finanziarie che vi ruotano intorno.

Partiamo da un dato abbastanza esplicativo della Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. Nel 1910 la percentuale del prezzo di un bene agricolo che finiva nelle tasche del piccolo produttore era del 40% circa. Nel 1997 questa percentuale si è ridotta fino al 7%. E ora è scesa ancora di più. Una tragedia. Ecco come il produttore – il piccolo agricoltore, l’allevatore o il contadino – lavora in perdita. E a perderci poi siamo tutti. Perché poi questi costi sono coperti dagli aiuti e dai contributi dell’Unione europea. E da un meccanismo di distribuzione di questi aiuti che è osceno, perché cerca di tamponare le falle di un sistema che è sbagliato in sé.

Gli agricoltori lavorano in perdita per il guadagno delle multinazionali

«Quello che accade nei passaggi della filiera è una vera e propria speculazione», ci dice il sindacalista, agronomo e esperto di politiche sociali Daniele Calamita. «Andrebbe fatto qualcosa che stabilisca una soglia minima per il costo del prodotto grezzo sotto la quale non andare. Ma purtroppo a chi chiede tutele viene risposto che non è possibile, perché nell’Unione europea vige il mantra del libero mercato». Sulla stessa linea è Roberto Iovino, già alla Flai Cgil e ora nella segreteria confederale della Cgil di Roma e Lazio. «Non solo non è regolamentato il prezzo di vendita, ma viene regolamentato il meccanismo della produzione, il che è ancora più deleterio».

«In questo modo infatti sono fissati a monte dei range ipotetici di prezzi in base alla produzione prevista. Ma poi questi prezzi non sempre vengono rispettati», continua Iovino. «Perché la grande distribuzione è aggressiva, gioca al ribasso e sfugge al meccanismo regolatorio dell’Unione europea. E così per un lungo periodo ci sono sate vere e proprie aste al ribasso, gestite dalla grande distribuzione, dove le programmazioni sui costi fatte dai produttori non venivano rispettate». Per non parlare del fatto che questi prezzi siano decisi alla Borsa di Chicago, come pure scommesse speculative, indipendentemente dal valore della produzione.

Le leggi ci sono, ma non vengono rispettate

«In realtà basterebbe applicare la direttiva sulle pratiche sleali dell’Unione europea, che è molto buona e impone che non si possa vendere al di sotto dei costi di produzione», spiega Fabio Ciconte, direttore dell’assiociazione ambientalista Terra!. «L’Italia ha approvato questa direttiva, ma in deroga. E dentro queste deroghe si nascondono i dettagli che obbligano l’agricoltore a vendere sottocosto».

«L’unico modo in cui gli agricoltori hanno cercato di tutelarsi, infatti, è stato unendosi nei consorzi. Lo hanno fatto per essere più forti davanti alla grande distribuzione. Ma non solo non è bastato; alla fine è andato contro i loro interessi perché adesso le multinazionali trattano direttamente coi consorzi e non più sul prezzo di produzione del singolo agricoltore», aggiunge Roberto Iovino. «Per questo, oltre alle leggi di tutela servirebbe anche un’azione di vigilanza, perché non sempre poi si rispettano le consegne».

L’esempio del latte francese: il prezzo finale aumenta, gli allevatori ci rimettono

Se in Italia la direttiva è stata approvata con deroga, in Francia sono state approvate negli ultimi anni diverse “leggi alimentari” che avrebbero dovuto garantire un equo prezzo. Ma queste leggi non vengono rispettate. Sono ben tre le grandi multinazionali dell’agricoltura che non l’hanno fatto. Il presidente Emmanuel Macron ha detto che sarebbe intervenuto, ma non ha fatto nulla. Paese che vai, usanze che trovi. A rimetterci però sono sempre i piccoli agricoltori. E di riflesso noi, come consumatori.

Vediamo perché, con un altro esempio che arriva dalla Francia. Il costo del latte, il cui aumento è deleterio sia per chi lo produce sia per chi lo consuma. Non per chi ci specula sopra. Nel 2001 mezzo litro di latte costava 55 centesimi: 25 andavano all’allevatore, 22 al consorzio e 0,8 al distributore. Nel 2022 il costo è aumentato: mezzo litro di latte costa 83 centesimi, ma solo 24 vanno all’allevatore. Meno di prima.

Di questi 83 centesimi, infatti, 36 vanno al consorzio e ben 23 vanno al distributore. Il mutamento di paradigma è evidente. Con un prezzo finale del prodotto più alto, l’allevatore prende addirittura meno soldi. Mentre con l’accresciuto potere delle multinazionali, grazie alla favola del libero mercato, ecco che il distributore vede il suo guadagno aumentare del 188%.

Uscire dal paradosso del libero mercato che penalizza agricoltori e consumatori

Come uscire da questo paradosso tutto interno al libero mercato, che penalizza sia gli agricoltori che i consumatori? «Una proposta, che non è una soluzione ma sarebbe già un passo avanti, esiste», ci spiega Daniele Calamita. «All’epoca, quando all’interno dell’Unione europea si stava sviluppando il discorso sulla tracciabilità del prodotto, chiedemmo che fosse esposta anche la tracciabilità del prezzo. Perché, se anche solo il consumatore sapesse a chi vanno i suoi soldi (per esempio scrivendo ogni passaggio su ogni confezione di latte, ndr), qualcosa potrebbe cambiare. Ma nessuno, né allora né adesso, si sogna di dare fastidio alle multinazionali».

«Bisognerebbe rispettare le leggi che già ci sono, ma ancora più importante resta il problema della remunerazione del settore agricolo. E questo non lo risolvi con una direttiva, ma mettendo mano alla catena del valore del cibo», dice Fabio Ciconte. «Noi siamo oramai abituati a comprare un cibo che non costa nulla, e questo va a tutto vantaggio delle multinazionali della grande distribuzione e della speculazione finanziaria. Chi non ci guadagna, o addirittura ci rimette, è l’agricoltore. E a cascata il bracciante sfruttato nei campi. Bisognerebbe alzare i prezzi, e allo stesso tempo alzare i salari dei consumatori perché possano permettersi di comprare i prodotti agricoli al loro giusto prezzo».

Avere la possibilità di comprare a un giusto prezzo

Perché le proteste degli agricoltori hanno sicuramente torto nell’indicare il problema nei provvedimenti a tutela dell’ambiente, come abbiamo già spiegato più volte. Ma hanno sicuramente ragione nell’indicare il problema in un sistema di filiera che li penalizza e li strozza. E questo sistema penalizza e strozza anche noi consumatori. Per questo è decisiva la questione di togliere l’agricoltura e gli altri beni essenziali dalle mani dei mercati finanziari. E ancora più decisiva la questione dell’aumento dei salari dell’intero corpo sociale. Per fare in modo che il consumatore abbia la capacità di acquisto dei prodotti agricoli a un giusto prezzo, quello della produzione.

«Questo servirebbe anche per smontare la retorica del consumatore consapevole, del singolo individuo che deve stare attento lui ai problemi del mondo», conclude Fabio Ciconte. «Questo modo di guardare alle cose l’ho definito come “il vestito della domenica del capitalismo”. Dobbiamo diventare tutti consapevoli, con gli influencer che ci dicono come mangiare bene e come non sprecare il cibo. Ma intanto non abbiamo soldi per comprare prodotti buoni a un giusto prezzo. E ci stanno mangiando la terra sotto i piedi». Come quando, per proteggere il sistema, ci dicono che bisogna diventare buoni e mangiare meno carne. No, è il sistema che deve produrre meno carne. E soprattutto farlo in modo diverso.