I dipendenti di Google licenziati per le proteste contro gli accordi militari con Israele denunciano la multinazionale

Dopo le proteste contro il progetto Nimbus, la denuncia dei lavoratori licenziati racconta le discriminazioni e rivendica il diritto di parola

L'ingresso della sede di Google a Sunnyvale, California © Greg Bulla/Unsplash

I lavoratori di Google licenziati in tronco il mese scorso per avere protestato contro gli accordi militari con Israele non ci stanno. E passano al contrattacco, denunciando la piattaforma per aver violato la libertà di espressione dei suoi dipendenti, come riporta la Cnn. Rivendicano come la loro protesta sia stata pacifica, nonostante le accuse di violenze mosse dalla multinazionale. E in un lungo articolo su “The Nation” vanno oltre, raccontando tutta una serie di abusi e discriminazioni che dichiarano di aver subito nei luoghi di lavoro all’interno dell’azienda contro i lavoratori palestinesi, arabi e musulmani.

A presentare il reclamo al National Labor Relations Board non sono solo le ventotto persone licenziate ad aprile per avere preso parte alle proteste. Ma anche altre decine di dipendenti licenziati nei mesi precedenti, per avere osato manifestare solidarietà con il popolo palestinese. O per avere criticato il progetto Nimbus: un servizio di cloud computing da 1,2 miliardi di dollari sviluppato per il governo israeliano insieme ad Amazon. E che ha evidenti scopi militari, come la fornitura di un’infrastruttura digitale all’esercito israeliano per raccogliere dati poi utilizzati dall’intelligenza artificiale. E abbiamo visto quanto l’intelligenza artificiale serva alle guerre di oggi e domani.

Il progetto Nimbus che aiuta l’esercito israeliano

Il progetto Nimbus nasce a settembre del 2022, e subito si configura come un’arma militare. È un super cloud dal valore di 1,2 miliardi di dollari progettato da Google e Amazon per il controllo sociale del territorio. E come spiega a il manifesto Ariel Koren, ex marketing manager di Google, serve per «ampliare lo schema israeliano di sorveglianza, profilazione razziale e altre forme di violazione dei diritti umani assistite dalla tecnologia». Un aiuto all’apartheid israeliano che, un anno dopo, diventa un aiuto militare alla distruzione della Striscia di Gaza. Un massacro che ha già provocato oltre trentamila morti, distrutta ogni infrastruttura palestinese, scuole e ospedali compresi, e devastato il futuro delle prossime generazioni.

Per questo i lavoratori delle big tech della Silicon Valley si sono riuniti nell’organizzazione No Tech for Apartheid. E con l’intensificarsi dei massacri nella Striscia di Gaza hanno intensificato le loro proteste. Prima hanno raccolto una petizione con oltre 10mila firme. Poi lo scorso 16 aprile hanno organizzato due sit-in molto partecipati negli uffici della piattaforma a New York e a Sunnyvale, in California. E in quest’ultimo edificio sono riusciti a entrare nell’ufficio del Ceo di Google Cloud, Thomas Kurian. Alcune volte, come nel caso delle proteste contro Starbucks e dei successivi licenziamenti, i dipendenti hanno ottenuto dei risultati. La speranza è che accada anche con Google.

I licenziamenti indiscriminati e senza giusta causa di Google

La risposta della multinazionale della tecnologia però non si è fatta attendere. È arrivato il licenziamento in tronco, appunto, di 28 lavoratori. Il Ceo di Google Sundar Pichai ha inviato una nota aziendale in cui esortava i suoi dipendenti a tenere «la politica fuori dal posto di lavoro». Come se opporsi alla distruzione del 97% del Pil di un Paese fosse una diatriba politica. Poi ha accusato i dipendenti licenziati di aver messo in atto un «disturbo fisico che ha impedito di lavorare ai loro colleghi». Dove però i “colleghi” dal capo sono chiamati googlers, giusto per rendersi conto di quanto sia assurda la vita dei lavoratori delle piattaforme e delle big tech.

I lavoratori licenziati non solo hanno rivendicato la protesta come pacifica, portando tutta una serie di testimonianze di colleghi, spettatori e giornalisti che vi avevano assistito. Ma hanno anche accusato la multinazionale di aver licenziato dipendenti che nemmeno avevano partecipato alla protesta. Poi sono andati oltre, e hanno deciso di rivolgersi al National Labor Relations Board, un’agenzia governativa che garantisce il diritto dei lavoratori ad associarsi, a protestare, scioperare e ottenere contrattazioni collettive. Un ente che da quando esistono le piattaforme – dove i minimi diritti dei lavoratori non sono rispettati – ha molto più lavoro da fare.

La risposta dei lavoratori non si è fatta attendere

Al National Labor Relations Board è stato presentato un reclamo in cui si accusa Google di impedire l’associazione di lavoratori, il loro diritto alla protesta e soprattutto la loro libertà di parola e di espressione. Ma pochi giorni prima, in una lunga lettera scritta a The Nation, alcuni dei lavoratori licenziati avevano spiegato di essere «delusi, indignati e scoraggiati dal rifiuto totale di Google di intraprendere con loro alcuna discussione». E hanno accusato la multinazionale di avere rifiutato ogni richiesta di incontro e chiarimento sul progetto Nimbus, ben prima delle proteste del 16 aprile.

Poi hanno anche raccontato come dall’inizio dell’invasione israeliana la vita all’interno dell’azienda per palestinesi arabi e musulmani sia diventata praticamente impossibile. «Abbiamo cercato di coinvolgere i nostri capi con petizioni, attraverso riunioni in orario d’ufficio o attraverso le bacheche interne», hanno scritto i dipendenti licenziati. «Ma invece di risponderci in buona fede, i piani alti hanno censurato la nostra rete di comunicazioni interne. Queste mosse hanno avuto un impatto nocivo sui nostri colleghi palestinesi, musulmani e arabi, che si trovano ad affrontare una cultura interna di odio, abusi e ritorsioni». Così è, se vi pare, la vita dei googlers (sic!).