«Ecco la strategia per una nuova agricoltura che aiuti Terra e contadini»
Mammuccini (Federbio): l'agribusiness stressa i terreni fertili e abbandona quelli marginali, affamando i produttori. Per vincere la sfida determinanti le scelte dei consumatori
Un’Europa in transizione verso l’agroecologia entro il 2050: questo prefigura il modello di scenario chiamato TYFA (Ten Years For Agroecology) contenuto in un recente studio del Think Thank IDDRI. Quasi una rivoluzione culturale e produttiva, che necessita di tempo e investimenti e che può iniziare solo da un profondo cambiamento della nostra dieta e, di conseguenza, dell’attuale modello di agricoltura, oggi orientato più dall’industria che dalla sostenibilità ambientale e sociale.
Una proposta di trasformazione complessiva e a lungo termine. «La domanda importante non è più se si possa produrre maggiormente in modo sostenibile, bensì di cosa abbiamo effettivamente bisogno e come possiamo raggiungere i nostri obiettivi: una dieta salutare per i cittadini, il contrasto ai cambiamenti climatici, il superamento dell’impiego dei fitofarmaci derivati dalla chimica di sintesi, la salvaguardia della biodiversità» commenta Maria Grazia Mammuccini, membro dell’ufficio di presidenza di FederBio, federazione di organizzazioni di tutta la filiera dell’agricoltura biologica e biodinamica. «Alla fine, i dati economici migliori sono quelli del biologico, basati su una filiera corta che punta sui prodotti del territorio. La strada è questa e bisogna investirci in maniera decisa».
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Dottoressa Mammuccini, come si traducono queste scelte nella transizione sul campo?
«Di sicuro il biologico ha delle rese inferiori, soprattutto in una fase di passaggio, ma quello che offre è una maggiore stabilità nella produzione, oltre al fatto che una maggiore qualità del prodotto incontra meglio la domanda dei consumatori, valorizzando ciò che si produce. Ci vorrebbe una grande consapevolezza, anche da parte delle grandi organizzazioni agricole, per sostenere questo cambiamento, perché da questo cambiamento gli agricoltori avrebbero tutto da guadagnare.
È facile oggi far capire che produrre di più non aiuta nemmeno gli agricoltori. Basti pensare alla polemica nata per quanto riguarda i pastori sardi (e in forme simili ricorre negli agrumeti tarantini, ndr) che chiedono un aumento del prezzo del latte di pecora, perché ora non copre le spese.
Ma l’obiettivo di produrre di più, che dovrebbe servire per sfamare il mondo, serve solo a creare un surplus finalizzato ad abbassare il prezzo dei prodotti. Allora bisogna ribaltare il sistema, domandandosi proprio quali sono i fabbisogni per una alimentazione sana e sostenibile in Europa, e quali modelli di agricoltura sono necessari per ottenere questi obiettivi. Ma è un passaggio concettuale molto impegnativo».
Un passaggio concettuale che necessita di una dieta differente…
«Il cambiamento delle abitudini alimentari dei cittadini è lo strumento fondamentale per cambiare l’agricoltura. L’abbiamo visto in maniera molto evidente con il biologico, la cui crescita è dovuta sostanzialmente all’aumento della domanda da parte dei consumatori di un cibo che venga incontro alle richieste in termini di salute e di tutela ambientale. E questa è sicuramente una leva fondamentale.
Però, ad essa, deve accompagnarsi necessariamente un cambio di politiche. Mentre cambiano i cittadini, e di conseguenza gli agricoltori che si orientano in base alla domanda, si discute una Politica agricola comunitaria (Pac) che continua a investire fondi nella agricoltura basata sul modello dell’agricoltura industriale».
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Vale anche, nello specifico, per il nostro Paese?
«In Italia la crescita del biologico vorrebbe un sistema all’altezza della situazione e invece c’è chi si oppone alla approvazione di una legge a sostegno di questo tipo di agricoltura. Ciò chiaramente rallenta il cambiamento. E i tempi non ci sono perché il cambiamento climatico è tanto rapido che non consente di attendere. Ce lo chiedono per fortuna le giovani generazioni, che stanno scuotendo questo sistema che invece ci sta portando verso l’autodistruzione».
Un cambio di modello o un indirizzamento alternativo delle risorse?
«Secondo me bisogna spostare le risorse verso un altro modello di agricoltura, e in generale di economia. Perché i sistemi economici più sono coerenti e più riescono ad ottenere risultati importanti. Bisogna però anche creare un’apparato di ricerca e innovazione che sia adeguato a questo cambiamento. Perché c’è un intero paradigma che sta cambiando. È un modello diverso che deve uniformare tutte le componenti. Il modello di agricoltura industriale, fondato sulla massima produzione, ha favorito l’abbandono di terreni collinari e montani, a vantaggio di una agricoltura intensiva nelle aree più fertili.
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Da una parte c’è quindi l’abbandono e dall’altra c’è la desertificazione rapida delle zone più fertili. È chiaro che un modello come quello proposto dallo studio, con una riduzione dei consumi di carne, animali allevati soprattutto al pascolo e non alimentati con cereali che depauperano la parte dei territori più produttiva, disegna una agricoltura che individua le zone collinari e montane come risorsa, e riequilibra anche il territorio. È evidente che però per arrivare qui, lo sforzo deve essere notevole. Ci vuole una strategia che supporti questo cambiamento».