I veleni degli aeroporti che nessuno vuole vedere
In Europa si continuano a costruire aeroporti, senza curarsi del gigantesco impatto dei voli aerei. Sia per il clima, sia per la salute
Non c’è stato niente da fare per le organizzazioni ambientaliste che hanno provato, invano, a opporsi. L’aeroporto di Valona (Vlora) entrerà in funzione all’inizio del 2025, pronto ad accogliere i turisti che negli ultimi anni si stanno riversando in massa sulle spiagge dell’Albania, bianchissime ed economiche. I due aeroporti internazionali già esistenti, quello di Tirana e quello di Kukës, non bastavano più per uno Stato grande poco più della Sicilia che, nei cinque anni trascorsi tra il 2018 e il 2023, è passato da poco meno di 6 a oltre 10 milioni di arrivi turistici annuali.
Poco importa se la gigantesca struttura, con tutto il suo corredo di strade e parcheggi, sorge nel bel mezzo delle rotte degli uccelli migratori che volano tra l’Europa e l’Africa. Poco importa se è all’interno dell’area protetta Vjosa-Narta, habitat di duecento diverse specie di uccelli, di cui una trentina a rischio estinzione. Il turismo ha la precedenza e trae ogni vantaggio dalla comodità, dall’efficienza e dalla rapidità di un mezzo di trasporto come l’aereo. I suoi impatti negativi, confermati da solide evidenze scientifiche, passano facilmente sotto silenzio perché si dipanano nel lungo periodo. Impatti sul clima e anche sulla salute umana.
Gli aeroporti in costruzione o in espansione in Europa
Quello di Valona non è l’unico aeroporto europeo in costruzione o ampliamento. Si discute da anni – con toni anche accesi – della terza pista di Heathrow, il principale dei nove scali londinesi. Ma la questione è ancora aperta, così come quella del Centralny Port Komunikacjny (CPK), il mega terminal aeroportuale, stradale e ferroviario che dovrebbe occupare tremila ettari a una quarantina di chilometri da Varsavia, in Polonia.
Quando il moderato ed europeista Donald Tusk è tornato primo ministro, archiviando gli otto anni di strapotere dell’estrema destra di Diritto e giustizia (PiS), il mastodontico progetto è sembrato in bilico. D’altra parte, lo stesso Tusk in campagna elettorale l’aveva descritto come un’idea «politica e, in molti sensi, malata». Le sue ultime dichiarazioni, però, sono possibiliste: il terminal ci sarà, sostiene, ma ridimensionato e con più centralità per i collegamenti ferroviari. L’investimento complessivo è stimato in circa 10 miliardi di euro. A cui aggiungere quelli necessari per ristrutturare gli altri due aeroporti di Varsavia, Modlin e Chopin (talmente inadeguato che inizialmente si pensava di chiuderlo).
A Francoforte, intanto, si vuole costruire un terzo terminal capace di accogliere 19 milioni di persone all’anno. Ad Atene l’aeroporto internazionale è adeguato per 26 milioni di passeggeri l’anno, ma nel 2023 ha superato i 28: stando al suo piano di espansione, punta ai 50 milioni entro il 2046. Il premier spagnolo Pedro Sánchez promette 2,6 miliardi di euro per rinnovare Madrid-Barajas. Mentre il vicino Portogallo mette la parola fine a una discussione che si trascinava da decenni: il nuovo aeroporto di Lisbona sarà ad Alcochete e sarà pronto entro il 2034. Bisognerà vedere se, come promesso, si costruirà anche la tanto attesa linea ferroviaria ad alta velocità tra Lisbona e Madrid. Le due capitali distano seicento chilometri, poco più di Roma e Milano, ma oggi per viaggiare dall’una all’altra bisogna per forza volare. A meno di non voler trascorrere otto ore in pullman.
Le particelle ultrafini degli aerei sono una minaccia per la salute
Che l’aereo sia il mezzo con il maggiore impatto sulle emissioni di CO2, e dunque sul riscaldamento globale, è ormai cosa nota anche ai non addetti ai lavori. Un volo a corto raggio emette mediamente 133 grammi di CO2 per passeggero ogni ora, contro i 41 di un treno. Si parla molto meno delle cosiddette emissioni non-CO2, cioè vapore acqueo, ossidi di azoto, diossido di zolfo e fuliggine. Non sono gas a effetto serra ma comunque, ad alta quota, possono avere un effetto sia riscaldante sia raffreddante a seconda delle condizioni.
Fanno parte della categoria anche le particelle ultrafini, note con l’acronimo UFPs. Gli aerei le emettono in alta quota, ma anche durante il decollo e l’atterraggio. Ciò significa che una persona che abita nel raggio di cinque chilometri da un aeroporto respira aria che contiene, in media, dalle 3mila alle 10mila particelle per centimetro cubo emesso dagli aerei.
Questo particolato atmosferico ha un diametro minuscolo (entro i 100 nanometri, mille volte più piccolo di quello di un capello) e dunque penetra dalle vie respiratorie fino a raggiungere il sangue, il cervello, la placenta. Sono passati più di quindici anni da quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha suonato per la prima volta il campanello d’allarme, perché la tossicità sembra addirittura superiore rispetto a quella del più noto PM2.5. Nonostante ciò, non esiste ancora alcuna soglia di sicurezza fissata per legge. E fino a qualche mese fa esistevano solo analisi dell’impatto sanitario delle emissioni dell’aviazione, ma non report che si concentrassero nello specifico sulle particelle ultrafini.
Il primo in assoluto l’ha commissionato a CE Delft la coalizione di ong Transport&Environment. Leggendolo, si scopre innanzitutto che il personale aeroportuale respira aria con una concentrazione preoccupante di UFPs. Per gli addetti ai bagagli che lavorano all’esterno, per esempio, arriva a una media di 37mila particelle per centimetro cubo. Ma non è finita qui. Sono ben 52 milioni le persone che abitano nel raggio di venti chilometri dai 32 aeroporti europei più trafficati. Cioè più del 10 per cento degli abitanti del Continente (inteso come l’area economica europea più il Regno Unito). Solo a Parigi, tra Charles de Gaulle e Osly, sono otto milioni.
Stando al report, dunque, in Europa l’esposizione alle particelle ultrafini può essere associata a 280mila casi di ipertensione, 330mila di diabete e 18mila di demenza tra la popolazione delle zone più a rischio. Che, sostiene Transport&Environment, spesso appartiene alle fasce a basso reddito. Sono dati preliminari che necessitano di essere confermati da ulteriori studi epidemiologici, ma sono sufficienti per capire che l’impatto sanitario, sociale e umano è gigantesco.
L’Europa vuole monitorare le emissioni non-CO2 degli aerei, ma solo a metà
Si potrebbe pensare che le emissioni di particolato atmosferico in generale, e di particelle ultrafini in particolare, siano inevitabili. Non è del tutto vero. Come spiega sempre il rapporto di CE Delft, per abbatterle basterebbe ridurre la concentrazione di aromatici e zolfo nel carburante degli aerei. Ci sono due modi per farlo: l’idrotrattamento dei combustibili fossili e un più ampio uso dei cosiddetti carburanti sostenibili per l’aviazione. Tutti cambiamenti che le normative possono accelerare: è il caso della direttiva europea “qualità del carburante”, che però risale al 2009, o delle più recenti norme ReFuel che impongono una tabella di marcia per l’introduzione di carburanti ecologici nell’aviazione.
Le istituzioni europee stanno lavorando anche su un tema che finora avevano trascurato: imporre alle compagnie aeree di monitorare anche le loro emissioni non-CO2, oltre a quelle di gas a effetto serra. Lo prevede la riforma del sistema di scambio di quote di emissioni (ETS), concordata da Parlamento e Consiglio nel 2022 e formalmente adottata nel 2023. Sarebbe un passo avanti storico, perché finalmente fornirebbe dati attendibili, completi e utili.
Un monitoraggio simile, sottolinea Transport&Environment, ha senso solo se prende in considerazione tutti i voli: sia quelli che restano entro i confini europei, sia quelli in entrata e in uscita. Esattamente come accade per l’analogo conteggio previsto per il trasporto marittimo. Ma le lobby si sono messe di traverso. La International Air Transport Association (IATA) ha speso pagine e pagine per criticare le imprecisioni dei metodi di calcolo. Tanto da convincere la Commissione europea a esonerare i voli a lungo raggio cioè da gennaio 2025 a gennaio 2027. Si salvano solo quelli che restano entro l’area economica europea o, al massimo, vanno o tornano da Regno Unito e Svizzera. In termini numerici sono il 67%, ma generano appena il 33% dell’impatto climatico dovuto alle scie di condensazione.
La scelta ha scontentato addirittura alcune compagnie aeree, nello specifico le low cost, che operano i voli più brevi e temono quindi di vedersi erroneamente attribuita la stragrande maggioranza delle emissioni non-CO2. Le ong sono andate a scandagliare le 100 rotte europee più inquinanti: appena 5 entrano nel perimetro di monitoraggio dei primi due anni. Una palese stortura. E una tutela in meno, sia per il clima, sia per chi quelle emissioni le respira senza nemmeno averne consapevolezza. Il 29 luglio 2024 si chiude la finestra per le consultazioni pubbliche. E le ong chiedono a gran voce alla Commissione di tornare sui suoi passi.