Pollo e formaggio assetano l’America
Le abitudini alimentari statunitensi, fortemente sbilanciate verso le proteine animali, hanno un impatto deleterio sulle falde acquifere
Quando un protagonista di una serie tv americana porta la cena a casa, spesso e volentieri estrae da un cartone una fetta di pizza strabordante di mozzarella o grosse porzioni di ali di pollo fritte. Una rappresentazione che non si discosta troppo dalla realtà. A partire dai primi anni Ottanta, negli Stati Uniti il consumo pro capite di formaggio è raddoppiato. E l’anno scorso, per la prima volta, quello di pollo si è attestato sui 45 chili all’anno. Il doppio rispetto a quarant’anni fa.
Che queste abitudini alimentari non siano ottimali in termini di salute è piuttosto intuitivo. A passare inosservato è il fatto che siano rapidamente prosciugando le falde acquifere sotterranee, perché gli animali hanno bisogno dei mangimi e per coltivarli serve sempre più acqua. A parlarne è un approfondimento del New York Times.
I costi ambientali, sociali e sanitari
I costi invisibili del sistema agroalimentare: 10mila miliardi di dollari all’anno
Secondo un report Fao il sistema agroalimentare globale ha costi ambientali, sociali e sanitari nascosti pari a 10mila miliardi di dollari
Falde acquifere prosciugate per la soia mangiata dai polli
Storicamente l’Arkansas era dominato dalle sterminate piantagioni di cotone, per decenni coltivate dagli schiavi. D’altra parte, le sue temperature estive, che restano elevate anche di notte, si prestano particolarmente alla crescita della pianta. Ora i campi ci sono ancora ma sono quasi tutti coltivati a soia, che serve come mangime per polli e tacchini. Lo Stato americano conta più di 2.400 allevamenti di polli broiler, per una produzione annua che si attesta sui 2,5 miliardi di chili di carne. Se rapportata al totale del comparto agricolo, la filiera avicola genera il 40% del fatturato e un quarto dei posti di lavoro.
Questo territorio, nella valle del fiume Mississippi, di per sé è piovoso. Ma soltanto d’inverno, non quando le colture agricole ne hanno bisogno. Considerato che i fiumi sono lontani dai campi coltivati, l’unica scelta rimasta è quella di attingere dalle falde. Sommando l’acqua usata per irrigare i campi di soia e mais, e quella che serve per gli allevamenti di pollame, si supera la metà del consumo idrico complessivo dell’intero Arkansas. E resta ancora fuori il riso, anch’esso importante per il comparto agricolo locale. Come risultato, due terzi dei pozzi di monitoraggio mostrano un calo dei livelli delle falde acquifere a partire dal 1980.
Le coltivazioni di erba medica cambiano volto all’Idaho
Un discorso simile vale per l’Idaho. Tuttora da solo copre circa un terzo della produzione statunitense di patate ma, a partire dai primi anni Novanta, è diventato anche la meta d’elezione per i produttori lattiero-caseari californiani, schiacciati dall’aumento dei costi, dalle regolamentazioni sempre più severe e dall’espansione delle aree suburbane. Oggi ospita circa 700mila vacche da latte: solo in California e Wisconsin ce ne sono di più. Di conseguenza si sono estese anche le coltivazioni di erba medica, consumata dai bovini: ormai occupano oltre 24mila chilometri quadrati. Queste aree occidentali degli Stati Uniti, però, sono note per la siccità. Nell’area che è stata ribattezzata come Magic Valley, cadono appena 250 millimetri di pioggia all’anno. Per far crescere le colture, bisogna irrigarle con costanza.
I giornalisti del New York Times hanno controllato i dati rilevati dai pozzi di monitoraggio nell’Idaho, scoprendo che più di quattro su cinque segnalano un netto calo dei livelli dell’acqua a partire dagli anni Ottanta. Nello scorso decennio, nel 79% dei pozzi è stato toccato un record negativo. Un declino del genere può essere spiegato solo da un insieme di motivi: sia il pompaggio eccessivo, sia le modalità di irrigazione differenti rispetto al passato. Ma il risultato è sempre lo stesso: i livelli dell’acqua di falda sono molto più bassi rispetto a cinquant’anni fa. E continuano a calare. Il che appare inevitabile, visto che – come ammettono gli stessi operatori del settore – si preleva più acqua di quanta non se ne reimmetta.