Banche, ambiente e diritti umani: il lato oscuro della transizione verde

Banche e fondi finanziano deforestazione, fossili e miniere legati a espropri, abusi e violazioni dei diritti umani nelle comunità locali

Alessandra Tommasi
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Alessandra Tommasi
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La finanza globale non è un meccanismo neutrale. Attraverso prestiti, investimenti, fondi indicizzati e strumenti speculativi può sostenere regimi repressivi, alimentare conflitti, favorire modelli produttivi distruttivi o indebolire diritti fondamentali lungo intere filiere. Analizzare questi meccanismi significa mostrare come, dietro a scelte apparentemente tecniche, si nascondano impatti concreti sulla vita delle persone: dalle repressioni dei regimi autoritari alla violenza nelle frontiere, dalle filiere tessili alle speculazioni sul cibo, fino ai grandi eventi sportivi.

Ricordando che quel denaro non è astratto: è il nostro. Sono i risparmi, i fondi pensione, i conti correnti di milioni di persone. Ed è anche attraverso le nostre scelte – a chi affidiamo i soldi, quali operatori premiamo o abbandoniamo – che possiamo contribuire a costruire un sistema finanziario più giusto

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A qualche settimana dalla chiusura della Cop30 di Belém resta l’immagine dei copricapi piumati dei movimenti indigeni scesi in piazza per chiedere più giustizia climatica e difendere l’Amazzonia. La stessa Conferenza sul clima, guidata da Luiz Inácio Lula da Silva, ha inserito la deforestazione tra le priorità di quest’anno. E istituito il Tropical Forest Forever Facility (Tfff), un fondo per incentivare la tutela degli ecosistemi tropicali. Eppure negli ultimi dieci anni – dall’Accordo di Parigi –, 4mila tra banche e gestori patrimoniali internazionali hanno guadagnato circa 26 miliardi di dollari dal finanziamento di aziende accusate non solo di deforestazione, ma anche dell’accaparramento di terre e di violazioni dei diritti umani.

Non è un caso isolato. Nonostante gli impegni presi da Paesi e aziende, la finanza globale continua a investire in aziende dannose per l’ambiente e per il clima. Legate ai combustibili fossili, ad esempio, ma anche all’interno delle filiere di minerali critici indispensabili per la transizione verde. Mentre chi ne denuncia gli impatti è sempre più criminalizzato.

Banche e deforestazione: il doppio gioco della finanza globale

Alla Cop26 del 2021, con la Dichiarazione di Glasgow, i governi  si sono impegnati a porre fine alla perdita delle foreste entro il 2030. Un anno dopo, il Quadro globale sulla biodiversità di Kunming-Montreal, adottato da 196 Paesi, ha fissato l’obiettivo di riallineare i flussi finanziari pubblici e privati alla tutela della natura. Il 2024 è però stato l’anno peggiore mai registrato per la perdita delle foreste pluviali primarie tropicali. Le più ricche di biodiversità e più difficili da rigenerare. Gli incendi, aggravati dal riscaldamento globale, sono stati la causa principale. Anche se tra il 2002 e lo scorso anno è stato primario il ruolo dell’agricoltura. 

Com’è possibile? Global Witness evidenzia come lo stesso sistema finanziario che governi e istituzioni sperano di mobilitare per l’ambiente, come nel caso del Tfff, abbia generato profitti enormi sostenendo aziende coinvolte nella deforestazione e in violazioni dei diritti umani. Si tratta di 26 miliardi di dollari in un decennio – il dato con cui si apre questo articolo – derivati da investimenti, prestiti, sottoscrizioni e collocamento di emissioni, forniti a 50 aziende in sei filiere ad alto impatto: bovini, soia, olio di palma, gomma, legname e carta-cellulosa. A realizzare i ricavi maggiori complessivi, secondo Global Witness, sono stati gli istituti finanziari statunitensi (5,4 miliardi), dominati da Vanguard, JPMorgan Chase e BlackRock. Seguiti da quelli indonesiani e brasiliani. Le banche europee ne hanno generati in totale 3,5 miliardi, guidate da Bnp Paribas e Rabobank. 

BlackRock, il più grande gestore patrimoniale al mondo, era già stato denunciato presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) l’anno scorso per aver contribuito ad abusi ambientali e violazioni dei diritti umani attraverso investimenti nel settore agroalimentare. Nel 2023 alcune organizzazioni non governative hanno invece intentato una causa contro la francese Bnp Paribas, accusandola di aver finanziato indirettamente la deforestazione in Amazzonia.

Le iniziative volontarie sono insufficienti: l’allarme di Global Witness sulla finanza verde

Accanto agli impegni multilaterali, negli ultimi anni sono nate diverse iniziative volontarie guidate dal settore privato. È il caso dell’Agricultural Sector Roadmap to 1,5°C (di multinazionali dell’agroalimentare) e della Glasgow Financial Alliance for Net Zero (degli istituti finanziari). Accordi pensati per orientare le catene di approvvigionamento e i portafogli finanziari verso traiettorie compatibili con l’Accordo di Parigi. Ovvero con l’obiettivo di un aumento delle temperature globali contenuto a 1,5 gradi centigradi. Ma affidati in larga parte all’autoregolazione delle stesse imprese coinvolte. Come mostra l’indagine di Global Witness, questi meccanismi si sono rivelati insufficienti a frenare la deforestazione. 

Sul piano normativo, invece, il Regolamento europeo sulla deforestazione (Eudr), il primo nel suo genere a richiedere filiere prive di deforestazione e conformi alle leggi sui diritti umani, e che sarebbe vincolante per tutti gli Stati membri dell’Unione, sta subendo ritardi. E rischia un ulteriore indebolimento prima della sua piena applicazione.

Banche e combustibili fossili: flussi di denaro verso carbone, petrolio e gas

Sempre dall’Accordo di Parigi, le grandi banche mondiali hanno finanziato i combustibili fossili con 7.900 miliardi di dollari.  Lo riporta il rapporto Banking on Climate Chaos che analizza i dati più aggiornati su prestiti, e finanziamenti concessi da 65 istituti bancari a oltre 2.700 aziende attive nella filiera fossile.

Il rapporto segnala un’inversione di tendenza. Dopo tre anni di calo, le erogazioni nel settore sono tornate a crescere, con 162,5 miliardi di dollari in più rispetto al 2023. Per un totale di 869 miliardi. Di questi, circa la metà (429 miliardi) è stata destinata ad aziende impegnate nell’espansione di petrolio, gas e carbone, per nuovi pozzi, trivellazioni, terminali per il gas naturale liquefatto, oleodotti, infrastrutture e progetti per aumentare la produzione.

Le banche statunitensi hanno finanziato un terzo degli investimenti (289 miliardi di dollari). Il 21% dei quali proveniente dalle sole JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo. In Europa, secondo il rapporto, la britannica Barclays è il principale finanziatore fossile del 2024 con 35,4 miliardi di dollari. Seguono Santander, Bnp Paribas, Deutsche Bank e Hsbc, ciascuna con un impegno compreso tra 14 e 17,3 miliardi di dollari.

Il fallimento della Net Zero Banking Alliance della finanza globale

Il rapporto Banking on Climate Chaos documenta anche il sostanziale collasso della Net Zero Banking Alliance. Ovvero dell’iniziativa lanciata nel 2021 sotto l’egida delle Nazioni Unite per allineare i portafogli delle banche all’obiettivo dell’Accordo di Parigi. Nel 2024 tutte le principali banche statunitensi, canadesi e giapponesi incluse nel rapporto hanno abbandonato l’alleanza.

L’esodo è iniziato alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e del secondo ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, come già nel 2017. E in un clima politico sempre più ostile alle politiche ambientali, sociali e di governance (Esg). Nel 2025 la Net Zero Banking Alliance è stata formalmente chiusa, certificando il fallimento del principale tentativo di autoregolazione climatica del settore finanziario globale.

Miniere e diritti umani: il lato oscuro della transizione verde

Il fallimento degli impegni climatici nel settore finanziario non riguarda solo i combustibili fossili. Anche nella filiera delle materie prime indispensabili per la transizione energetica i flussi di capitale sostengono modelli di estrazione ad alto impatto ambientale e sociale. 

Un rapporto di Oxfam, Fair Finance International e 11.11.11 denuncia come, nella sua corsa ai minerali critici, l’Europa finisca per alimentare violazioni dei diritti umani e danni ambientali. Secondo l’analisi, tra il 2016 e il 2024 gli istituti finanziari europei hanno fornito 64 miliardi di euro in prestiti e sottoscrizioni a imprese che estraggono litio, rame, nichel e cobalto. Materiali essenziali per batterie, veicoli elettrici e tecnologie rinnovabili. Ciò mentre gli investitori dell’Unione detengono 15 miliardi di euro in obbligazioni e azioni del settore.

Tuttavia, le loro politiche ambientali e di tutela dei diritti umani risultano gravemente insufficienti. Gli otto maggiori istituti finanziari analizzati – tra cui Bnp Paribas, Crédit Agricole, Société Générale, Ing e Santander – ottengono punteggi compresi tra 2,6 e 4 su 10. Il migliore, il fondo pensione olandese Abp, arriva appena a 4. Mentre attori finanziari di peso come Crédit Agricole, Allianz o Bbva non superano quota 3.

Comunità locali sotto pressione: espropri, violenze e inquinamento nelle nuove filiere verdi

Il rapporto collega banche e investitori europei a operazioni minerarie in Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Brasile e Perù, tutte associate a impatti ambientali e abusi documentati: dalla miniera di Kamoa-Kakula in Congo – con espropri, acqua contaminata e proteste represse con violenza nel 2025 –, alla miniera di rame Antapaccay in Perù gestita da Glencore – accusata di inquinamento da metalli pesanti e trattative opache con le comunità locali. In Mozambico, le comunità intorno alla miniera di Balama, produttrice di grafite per batterie, denunciano reinsediamenti forzati e contaminazione delle fonti d’acqua. In Brasile, Sigma Lithium, presentata come “campione del litio verde”, viene accusata dai residenti di aver deviato senza consenso l’unica fonte idrica della zona e di generare inquinamento da polveri e danni strutturali alle abitazioni.

Il quadro che emerge è quello di una transizione che rischia di replicare – in nuove filiere – le stesse dinamiche estrattive che la politica climatica vorrebbe superare. Come osserva Oxfam, la corsa ai minerali critici è spesso presentata come la base dell’energia verde, ma le catene di approvvigionamento restano piene di conflitti e inquinamento, mentre le regole europee vengono indebolite proprio quando servirebbero di più. Un messaggio che arriva mentre anche l’Europa arretra sulle proprie norme di due diligence, ridimensionando gli standard di sostenibilità attraverso il pacchetto Omnibus.

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