Perché occorre rendere davvero ecologici i fondi e gli indici “climatici”

Indici e fondi “climatici” presentano ad oggi notevoli limiti. Le logiche puramente finanziarie sono ancora dominanti rispetto all'ecologia

Federica Casarsa
I fondi e gli indici climatici necessitano di regole più stringenti © TeamDAF/iStockPhoto
Federica Casarsa
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I fondi che promettono di contrastare i cambiamenti climatici sono in effetti più puliti. Ma non bastano per affrancare l’economia dalle emissioni di gas a effetto serra. L’ha dimostrato di recente una ricerca di EDHEC Business School – Scientific Beta. Dai risultati è emerso che nella costruzione dei portafogli che usano indici definiti “climatici” le considerazioni finanziarie restano determinanti. Inoltre, questi indici premiano le aziende che nel tempo aumentano le emissioni e trascurano sistematicamente i settori chiave per la transizione

Cosa sono e come funzionano gli indici “climatici

L’analisi si focalizza sugli indici (o benchmark) climatici: si tratta di insiemi di titoli, come azioni e obbligazioni, che vengono selezionati e pesati tra loro in base a criteri riguardanti il clima. Per esempio: le emissioni assolute di gas a effetto serra delle aziende che emettono i titoli, oppure il loro impatto in termini di anidride carbonica (CO2) dispersa per ogni unità di prodotto.

I fondi usano questi indici come parametri di riferimento per costruire portafogli con obiettivi climatici, come ridurre le emissioni, o allinearsi all’Accordo di Parigi. Alcuni fondi replicano passivamente la composizione degli indici: in questo caso si parla di Exchange traded funds (Etf). La ricerca ha testato l’efficacia delle strategie degli indici climatici azionari attualmente disponibili sul mercato, prevalentemente Etf europei, utilizzando i dati di circa duemila aziende nel periodo 2011-2020.

La distanza tra i portafogli dei fondi e l’economia reale

I ricercatori hanno rilevato che gli indici climatici permettono di costruire portafogli con un livello di emissioni inferiore dell’85% rispetto a prodotti finanziari simili, ma che non integrano criteri climatici. Missione compiuta, quindi? Non proprio. Decarbonizzare un portafoglio d’investimento non fa decarbonizzare l’economia reale. Tre dati aiutano a capire perché.  

  • I criteri climatici sono in media solo il 12% dei fattori decisivi sulla selezione dei titoli. La porzione restante (quindi l’88%) è determinata da considerazioni di tipo finanziario. In pratica, per stabilire se un titolo va comprato oppure no, conta ancora molto di più la valutazione che il mercato attribuisce al titolo stesso in quel momento (e le motivazioni possono non avere a che fare con il clima) piuttosto che la quantità di emissioni di gas a effetto serra rilasciate dall’azienda che ha emesso il titolo.
  • In molti casi (il 35%) le aziende che nel tempo peggiorano le proprie prestazioni climatiche vengono addirittura premiate da queste strategie. Che ne comprano più titoli o assegnano un peso maggiore all’interno del portafoglio.
  • Il terzo dato interessante è legato al 91%: il valore indica quanto, mediamente, il settore dell’energia elettrica viene sottodimensionato all’interno dei portafogli climatici. Cosa significa? Per mantenere basso il punteggio in termini impatto legato alle emissioni di Co2, gli indici portano a preferire i settori che per natura sono meno inquinanti. Come nei casi del settore farmaceutico, dell’IT o delle telecomunicazioni. Mentre i settori che emettono più gas serra trovano uno spazio ridotto nei portafogli
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La sede della Borsa di New York © lucky-photographer/iStockPhoto

Perché gli indici climatici non funzionano? 

Questo approccio è semplice e rapido per abbassare il punteggio delle emissioni, ma non molto efficace per sostenere la transizione dell’economia verso un modello low-carbon. Infatti, sono i settori a maggiori emissioni – per esempio l’energia elettrica e le costruzioni – ad avere bisogno di più investimenti per decarbonizzare i processi produttivi. E trasformare queste aziende è un passaggio indispensabile della transizione: basti pensare all’elettrificazione dei trasporti, oppure alla ricerca di metodi alternativi per la produzione di cemento e acciaio. 

«Uno dei problemi principali – spiega Felix Goltz, uno dei tre autori della ricerca – è che gli indici climatici adottano lo stesso approccio delle strategie che non applicano criteri di sostenibilità. Cioè selezionano i titoli in base a determinati requisiti delle aziende emittenti. Per esempio, un basso livello di indebitamento. Oppure, nel caso degli indici climatici, determinate soglie di emissioni assolute o di impatto».

«Questo approccio – prosegue l’esperto – funziona per migliorare la qualità del portafoglio e raggiungere determinati obiettivi finanziari, ma non è efficace se lo scopo è avere un impatto sull’economia reale. Infatti, se un fondo seleziona titoli a basso indebitamento, il portafoglio ne guadagna in qualità, ma l’aspettativa non è certo quella di ridurre il tasso di indebitamento delle aziende investite. Lo stesso ragionamento vale per gli indici climatici: selezionare aziende a basse emissioni riduce l’impatto del portafoglio, ma non porta automaticamente alla riduzione delle emissioni nell’economia reale». Occorre quindi ripensare le metodologie d’investimento rifocalizzandole sulla necessità di generare impatto attraverso le aziende investite.

Compromessi l’engagement e l’allocazione di capitale

Gli indici climatici compromettono due leve che gli investitori hanno a disposizione per influenzare le aziende. La prima è l’engagement, cioè l’interazione tra investitore e azienda. La seconda è l’allocazione di capitale (o capital allocation) che in questo caso consiste nella selezione dei titoli da investire. Attraverso queste scelte, gli investitori dimostrano quali criteri considerano importanti, creando così determinate aspettative nel mercato. Di conseguenza, le aziende saranno portate a cambiare per adeguarsi alle esigenze degli investitori. Engagement e capital allocation devono procedere di pari passo.

Per essere credibili nell’avanzare richieste di cambiamento alle aziende, gli investitori devono dimostrare di essere coerenti nelle scelte di portafoglio. Inoltre, le aziende che compiono progressi in ottica di decarbonizzazione vanno premiate, quelle che peggiorano devono avere la certezza di poter incorrere in difficoltà. Con le criticità rilevate oggi, gli indici climatici possono compromettere questa dinamica virtuosa. 

Come valutare la coerenza della “pagella climatica” di un indice

Goltz mette al primo posto la trasparenza: «Consigliamo agli asset manager di comunicare al mercato come gestiscono i tre indicatori che abbiamo analizzato nella ricerca». Anche l’etichetta ha la sua importanza. Secondo gli autori, per presentarsi al mercato come “climatici” o “allineati a net-zero” gli indici dovrebbero avere almeno il 50% delle scelte di portafoglio determinate da criteri climatici. 

Anche i consulenti finanziari devono fare la loro parte: «Quando esaminano un fondo climatico, oltre ad analizzare le performance finanziarie e l’esposizione ai rischi, dovrebbero essere in grado di valutare anche la coerenza degli obiettivi d’impatto».

Infine, resta importante maneggiare con cura questo tipo di prodotti. Specialmente gli ETF “a effetto leva”, che amplificano, oppure riducono automaticamente i rendimenti e le perdite. Di recente la SEC, l’autorità di vigilanza dei mercati negli Stati Uniti, ha annunciato che regolerà questi strumenti. Ciò con l’obiettivo di proteggere gli investitori e salvaguardare la stabilità dei mercati.


Federica Casarsa è policy officer presso Eurosif. Le considerazioni presenti in questo articolo sono espresse tuttavia a titolo strettamente personale e non riflettono necessariamente la posizione di Eurosif e dei suoi membri.