Se i fondi passivi “sostenibili” si dimenticano del clima
Reclaim Finance ha esaminato 430 fondi passivi presentati come “sostenibili”. 7 su 10 sono esposti verso il settore delle fossili
I fondi passivi sono sempre più popolari. Perché sono più semplici ed economici da gestire, visto che la loro composizione replica quella di un indice finanziario (come per esempio l’S&P 500, con le cinquecento maggiori società statunitensi, o il Nasdaq con i titoli tecnologici). Secondo Morningstar, alla fine del 2023 gli asset gestiti da Etf e altri fondi passivi ammontavano a 13.290 miliardi di dollari a livello globale. Sorpassando così i fondi attivi, fermi a 13.230 miliardi. Manco a dirlo, le grandi società finanziarie offrono sul mercato anche fondi passivi presentati come “sostenibili”. Reclaim Finance ne ha esaminati 430. Scoprendo che sette su dieci sono esposti a società dei combustibili fossili.
Troppi combustibili fossili nei panieri dei fondi passivi “sostenibili”
Se a monte non è prevista una selezione attiva dei titoli, infatti, tutto ciò che compone l’indice di riferimento finisce automaticamente nel fondo. Anche le società che contribuiscono alla devastazione del clima, perché tuttora fanno parte di alcuni indici ESG (cioè basati su criteri ambientali, sociali e di governance). Per cogliere le proporzioni del problema, il report di Reclaim Finance si è focalizzato su cinque tra le maggiori società di gestione degli investimenti, cioè Amundi, BlackRock, DWS, Legal & General Investment Management (LGIM) e UBS AM. Analizzando 430 fondi passivi che vantano attributi di sostenibilità e, quindi, risultano più allettanti per i clienti attenti all’impatto ambientale e sociale delle proprie scelte.
Di questi 430 fondi, ben 304 – cioè il 70% – è esposto ad almeno una società che sta espandendo la produzione di combustibili fossili. Tra le 416 imprese scovate da Reclaim Finance ci sono colossi dell’oil&gas, come ExxonMobil, TotalEnergies e Shell, ma anche del carbone, come Adani, Mitsubishi e Glencore.
Non è più ammissibile estrarre combustibili fossili. Né investire in chi lo fa
Un dato paradossale. Perché l’Agenzia internazionale per l’energia ha messo nero su bianco che, per limitare l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, non c’è spazio per nuovi giacimenti di petrolio né di gas naturale. Insomma, non c’è nulla di “sostenibile” nel continuare a cercare ed estrarre combustibili fossili. Né, tanto meno, nell’investire nelle società che lo fanno.
Eppure, si arriva all’estremo per cui uno dei fondi passivi “sostenibili” ha un’esposizione dell’87% (in termini di valore di mercato) alle società fossili. Per Amundi, l’esposizione ai combustibili fossili si riscontra nel 78% dei fondi passivi presentati come sostenibili. Una quota preponderante, simile peraltro a quella di LGIM, UBS AM (entrambe al 73%) e BlackRock (72%). DWS si ferma al 57%.
Quasi tutte le policy sul clima si limitano ai fondi a gestione attiva
E dire che alcuni asset manager hanno adottato policy sul clima che limitano fortemente i loro stessi investimenti nell’espansione dei combustibili fossili. Tipicamente nel carbone, ritenuto il più “sporco” in assoluto. Ma prendiamo proprio l’esempio del carbone: sui venti grandi asset manager che hanno una policy, solo uno la applica a più del 50% dei suoi fondi passivi. Nella stragrande maggioranza dei casi, il perimetro d’azione si ferma ai fondi a gestione attiva. Figuriamoci poi tutti quei casi in cui le policy non esistono nemmeno: per gli investimenti in petrolio e gas sono ancora una rarità.
«Perfino gli asset manager che sostengono di avere policy sul clima sono parte del problema, perché la maggior parte di loro non le applica ai fondi passivi. Per gli investitori istituzionali e i regolatori, è tempo di svegliarsi e agire per porre fine a queste dichiarazioni fuorvianti», conclude Lara Cuvelier, della campagna per gli investimenti sostenibili di Reclaim Finance.