Fossile addio, anzi no. Ecco i fondi «verdi» affezionati al petrolio
Morningstar: in Europa il 60% dei fondi «ripuliti» non ha abbandonato del tutto il fossile. E gli investimenti Tech scoprono il carbon risk
Oltre metà dei fondi europei che dichiarano di aver disinvestito dal settore fossile conserva in portafoglio un certo numero di titoli legati al comparto. Lo rileva una ricerca di Morningstar che ha preso in considerazione più di 400 esemplari con investimenti complessivi per 60 miliardi di euro. 165 di questi, in particolare, rientrano nella categoria dei cosiddetti fossil free e gestiscono asset per 16,5 miliardi. Ma basta guardare all’esposizione per scoprire che il solo il 40% di loro ha saputo realizzare un disinvestimento completo.
Tra fossile e finanza green
La ricerca di Morningstar è stata pubblicata ad aprile e continua far riflettere. Vuoi per il rilancio del tema dello sviluppo sostenibile, che con l’avvento della pandemia di coronavirus ha trovato nuovi riscontri nel dibattito pubblico. Vuoi, soprattutto, per i diffusi proclami di Green Deal in un’Europa sempre più a trazione rinnovabile. Nel primo semestre dell’anno, dicono le ultime stime, eolico, solare e simili hanno generato il 40% dell’elettricità prodotta nei 27 Paesi dell’Unione. Il dato ha fatto registrare uno storico sorpasso sul fossile (che ha contribuito solo al 34% del totale).
«Sebbene riconosciuto come un problema da decenni, il tema dei cambiamenti climatici e dei loro effetti negativi ha iniziato a condizionare gli investimenti tradizionali solo negli ultimi quattro anni», si legge nella ricerca. Il riferimento corre all’Accordo internazionale sul clima raggiunto a Parigi nel 2015 e alla stesura degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU completata l’anno seguente. Due eventi che hanno alimentato la proliferazione degli investimenti green et similia. E che hanno favorito, soprattutto nell’ultimo biennio, il lancio di nuovi fondi dedicati: 67 nel 2018, 76 nel 2019.
E non è tutto: «Molti fondi tradizionali e sostenibili hanno anche modificato i loro mandati di investimento per concentrarsi sul tema del cambiamento climatico e/o aggiungere obiettivi legati al clima, come la riduzione dell’impronta di carbonio, la riduzione dell’esposizione ai combustibili fossili e una maggiore esposizione alle opportunità di energia rinnovabile» proseguono i ricercatori. Lo scorso anno gli afflussi di nuovi capitali nei fondi pro clima in Europa sono quadruplicati: 12 miliardi di euro contro i 3 del 2018.
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Fossil free… poco free
Fin qui tutto bene. Solo che, come si diceva, non è tutto oro quel che luccica. L’indagine distingue diverse categorie di fondi a seconda delle strategie adottate e dei prodotti di investimento scelti. Nella lista compaiono così i fondi che scommettono sulla transizione – come quelli che puntano sui green bond e quelli che scelgono soprattutto le rinnovabili e le tecnologie collegate (i cosiddetti Clean Energy/Tech funds e i Climate Solutions funds). Ma anche i fondi che promuovono la decarbonizzazione ovvero la riduzione delle emissioni. Ed proprio a quest’ultima categoria che appartengono i particolare gli “ex fondi fossili”. Che, con i loro 16,53 miliardi di euro di asset gestiti, sono anche il gruppo più rappresentato nella ricerca.
Come detto, solo il 40% di loro può definirsi completamente “pulito” mentre nel 60% dei casi il portafoglio degli investimenti conserva titoli legati al settore oil & gas. Una scelta, rilevano i ricercatori, che si spiega in riferimento alle diverse definizioni adottate rispetto al concetto stesso di fossil free. Si va dalla semplice esclusione delle imprese che detengono materialmente risorse fossili all’eliminazione completa di quelle aziende che hanno un qualsiasi coinvolgimento nel comparto attraverso attività come l’esplorazione o la distribuzione. Non sorprende, rileva dunque la ricerca, che alcuni fondi orientati al settore delle energie rinnovabili investano al tempo stesso in alcune utilities problematiche. Tra queste la spagnola Iberdrola – per la quale il fossile contribuisce a un quota compresa tra il 25% e il 50% dei ricavi – ma anche l’italiana Enel (50%).
Il carbon risk pesa ancora
La ricerca, inoltre, prende in esame il carbon risk delle imprese a fronte della transizione verso un’economia a basse emissioni. L’idea, in altre parole, è che le aziende eccessivamente esposte sul fossile possano andare incontro a un impatto negativo maggiore per il loro business di fronte al progressivo ridimensionamento della domanda nel mercato di gas, petrolio, carbone e così via. Scommettere su queste aziende diventa per forze di cose un vero e proprio azzardo per i fondi stessi.
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Ebbene, a far registrare i punteggi più alti in termini di carbon risk sono i fondi Clean Energy/Tech e Climate Solution. Ovvero i fondi che puntano di norma sulle compagnie più innovative. Un apparente paradosso che i ricercatori spiegano così: «Accanto alle aziende che si concentrano sulla fornitura di soluzioni verdi, i fondi Climate Solutions e Clean Energy/Tech investono anche in imprese più diversificate che si trovano in fasi diverse del loro percorso di transizione». Ovvero, concludono i ricercatori, in compagnie «che operano in settori ad alta intensità di carbonio come l’industria, i servizi pubblici, l’energia e i materiali che stanno sviluppando soluzioni per contribuire alla riduzione delle emissioni».