Gelati, carbone, hotel e film per difendersi dal clima. Il mondo ricco si copre di ridicolo

Un’inchiesta dell’agenzia Reuters svela in che modo sono stati utilizzati i fondi pubblici concessi ai Paesi poveri per l’adattamento ai cambiamenti climatici

Un investimento italiano segnalato alle Nazioni Unite come "finanziamento per il clima" di 4,7 milioni di dollari ha aiutato la catena Venchi ad aprire decine di nuovi negozi in Asia © RobertWay/iStockPhoto

Era il lontano 2009. Il mondo era riunito per la quindicesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop15 di Copenaghen. Ci si aspettava che da quel summit potesse emergere un consenso internazionale per un nuovo accordo che potesse succedere al Protocollo di Kyoto, ormai datato e inefficace nei contenuti rispetto all’inasprirsi della crisi climatica. Per quell’accordo occorrerà aspettare sei anni: lo si raggiungerà alla Cop21 di Parigi. E la Cop di Copenaghen rimarrà alla storia come un sostanziale fallimento. 

I 100 miliardi di dollari promessi dai Paesi ricchi alla Cop15 del 2009

All’epoca, però, un risultato fu raggiunto. Il mondo ricco accettò il principio secondo il quale sarebbe stato necessario concedere denaro ai Paesi più poveri per consentire loro di adattarsi ai cambiamenti climatici. Una quota di questi è infatti ormai inevitabile, anche se si azzerassero immediatamente e totalmente le emissioni di gas ad effetto serra. Le nazioni meno abbienti sono, paradossalmente, quelle che hanno beneficiato meno dello sfruttamento delle fonti di energia fossile, e quelle che patiscono gli effetti più gravi dei cambiamenti climatici. 

La cifra fu stabilita in 100 miliardi di dollari all’anno. Quei trasferimenti, prestiti, sovvenzioni di vario genere, però, non sono mai arrivati per intero. La cifra annuale è via via cresciuta, ma i Paesi ricchi non hanno mai rispettato la promessa, in quattordici anni. La domanda però è: cosa si è fatto con ciò che è stato concesso finora? A spiegarlo è un’ampia inchiesta condotta dalla Reuters e da Big Local News, laboratorio di giornalismo dell’università di Stanford. Dalla quale emerge una realtà inquietante e ai limiti del ridicolo

I casi assurdi di Italia, Stati Uniti, Belgio e Giappone

Con il denaro necessario per consentire al mondo povero di adattarsi agli impatti del riscaldamento globale, secondo l’agenzia di stampa «l’Italia ha aiutato una catena di negozi di gelati ad aprire dei punti vendita in Asia. Gli Stati Uniti hanno offerto un prestito per ampliare un albergo con affaccio sul mare ad Haiti. Il Belgio a produrre il film La Tierra Roja, storia d’amore ambientata nella foresta pluviale argentina. Il Giappone a costruire una nuova centrale a carbone in Bangladesh e ad estendere un aeroporto in Egitto».

Prese in giro, semplicemente. Per le quali neppure il termine greenwashing appare appropriato, dal momento che esso designa teoricamente progetti presentati come buoni ma che in realtà non lo sono. O che sono utili soltanto a nasconderne altri per nulla utili alla causa climatica. In questo caso, invece, si sarebbe scelto di agire, semplicemente, senza alcuna vergogna

Mancano linee guida internazionali. E ciascuno fa come vuole

E a farlo stavolta non sono multinazionali del carbone, compagnie petrolifere o minerarie. No, sono i nostri stessi governi. Quelli che dovrebbero indicare la via. Quelli che ogni anno ci riempiono di parole (evidentemente vuote) alle Conferenze sul clima delle Nazioni Unite. E che ci invitano anche a risparmiare acqua, a non tenere troppe luci accese in casa e a fare la raccolta differenziata

L’inchiesta ha analizzato in particolare più di 40mila contributi diretti inclusi negli stanziamenti decisi alla Cop15 del 2009 e ribaditi alla Cop21 del 2015. Ebbene nel periodo post-Accordo di Parigi sul clima, tra il 2015 e il 2020, i  40mila contributi sono stati pari a 182 miliardi di dollari. E in mancanza di paletti e linee guida internazionali, stabiliti dall’Unfccc (la Convenzione quadro dell’Onu che organizza le Cop), ciascuno ha agito di testa propria. Tanto che, precisa Reuters «quella centrale a carbone, quell’hotel, quelle gelaterie, quel film e quell’aeroporto non sembrano in alcun modo utili per la causa climatica. Ma ciò non ha impedito ai governi che hanno stanziato i fondi di presentarli alle Nazioni Unite come tali. E nel farlo, non hanno violato alcuna regola».

Le risposte senza commento dei governi in questione

L’agenzia di stampa ha interpellato a riguardo i governi in questione. E quelli italiano, americano, belga e giapponese hanno risposto in modo oggettivamente grottesco. Secondo l’esecutivo di Roma, «tutti gli investimenti considerano la questione climatica, ma non è stato spiegato come le gelaterie possano esservi incluse». Washington ha affermato che «l’hotel ad Haiti include sistemi di protezione contro gli uragani». Bruxelles ha sottolineato che il film «parla anche di deforestazione». E Tokyo che «la centrale a carbone e l’aeroporto prevedono l’uso di tecnologie pulite o installazioni sostenibili».  

C’è da mettersi in questo senso nei panni delle Nazioni Unite. Che, di fatto, si sono fidate dei governi, non ritenendo necessario specificare che quei 100 miliardi di dollari all’anno, se necessari per la lotta agli impatti dei cambiamenti climatici, non potevano essere destinati all’apertura di gelaterie. Ai piani alti del Palazzo di vetro devono avere la sensazione di essere come i maestri di una prima elementare. Di bambini piccoli. E anche particolarmente indisciplinati.