Glifosato: il più ampio studio mai condotto conferma la cancerogenicità
Il più ampio studio mai realizzato dimostra la cancerogenicità del glifosato, già sospettata da anni ma ignorata dalle autorità regolatorie
Il glifosato è uno dei pesticidi più noti e più utilizzati al mondo. Ritenuto innocuo dalle agenzie di regolamentazione americane e europee, con tutta probabilità non lo è affatto. È anzi altamente cancerogeno. È infatti capace di procurare l’insorgere di tumori e leucemie negli animali da laboratorio. E quindi negli esseri umani. Lo dimostra, questa volta senza ombra dubbio, l’ultima complessa e ambiziosa ricerca condotta da un team di scienziati e ricercatori italiani, americani e britannici. I cui risultati sono stati pubblicati in un paper scientifico uscito martedì 10 giugno sulla rivista scientifica Environmental Health.
In buona sostanza, gli scienziati hanno condotto per due anni degli esperimenti su mille ratti da laboratorio, cui sono state date dosi di glifosato considerate innocue dalle normative europee. E il risultato, scrivono i ricercatori, è che in tutti i gruppi di animali testati con il glifosato «abbiamo osservato un aumento statisticamente significativo, dose-dipendente, della tendenza a sviluppare tumori benigni o maligni in diversi tessuti». Non lascia dubbi nemmeno la conclusione. «Sono stati osservati esordio precoce e mortalità per tumori multipli. Questi risultati forniscono solide prove a supporto della conclusione della Iarc, secondo cui vi sono sufficienti prove di cancerogenicità negli animali da esperimento».
Dalla Monsanto alla Iarc: la lunga storia del glifosato
Commerciato dagli anni Settanta dalla Monsanto, a lungo il glifosato è stato considerato innocuo. Fino a che all’inizio del millennio una serie di ricerche scientifiche ne hanno dimostrato il suo essere altamente pericoloso e cancerogeno. Questi esperimenti non sono però mai stati presi in considerazione dalle agenzie di regolamentazione europee e americane, che hanno continuato a ritenerlo innocuo adducendo presunte motivazioni scientifiche. Anche se un’inchiesta di Le Monde del 2017 raccontava come dietro questa opera di disinformazione ci fosse proprio Monsanto.
Nel 2015 intanto si era finalmente svegliata la Iarc (International Agency for Research on Cancer), che lo aveva definito «probabilmente cancerogeno per l’uomo». Ma è servito a poco. Sia l’Epa (Agenzia di protezione dell’ambiente) negli Stati Uniti, sia l’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) e l’Echa (Agenzia europea per le sostanze chimiche) in Europa hanno preferito continuare a classificarlo come innocuo. Nel 2017 l’Efsa ha rinnovato la possibilità di uso del glifosato nell’agricoltura europea per cinque anni, invece dei canonici dieci. Da un lato deve rendere conto della sua pericolosità. Dall’altro sottostà a oscure manovre industriali, come raccontato all’epoca da Valori.
E infatti, di nuovo sotto pressione delle lobby, nel 2023 la stessa Efsa ne ha rinnovato l’utilizzo per altri dieci anni. Pur con blandissime limitazioni. Tanto che ancora oggi il glifosato è utilizzato in un terzo dell’agricoltura europea e addirittura in più della metà di quella italiana. Una scelta che definire scellerata è poco. Alla luce di tutte le ricerche passate e, soprattutto, alla luce della più ampia mai condotta, appena pubblicata dai ricercatori per conto dell’Istituto Ramazzini. Una delle poche istituzioni scientifiche in grado di condurre esperimenti di tale portata sugli animali da laboratorio.
Glifosato: lo studio definitivo sulla sua pericolosità
La ricerca non lascia infatti alcun dubbio. Il glifosato e due formulazioni Gbh (Roundup Bioflow usato nell’Unione europea e RangerPro usato negli Stati Uniti) sono stati somministrati tramite esposizione materna a mille ratti. A partire dal sesto giorno di gestazione fino a 104 settimane di età. Gli animali sono stati sottoposti a tre livelli di esposizione. Il livello più basso, considerato dalle autorità europee la soglia accettabile per l’uomo (0,5 mg/chilogrammo/giorno). Quello intermedio, di dieci volte superiore (5 mg). E la dose più alta (50 mg) considerata dalle autorità dell’Unione europea inefficace sui roditori da laboratorio.
In tutti e tre i gruppi di trattamento sono stati osservati trend di aumento dose-correlati statisticamente significativi o un aumento dell’incidenza di tumori benigni e maligni in diverse sedi anatomiche. «Questi tumori sono comparsi nei tessuti (leucemia), nella pelle, nel fegato, nella tiroide, nel sistema nervoso, nelle ovaie, nella ghiandola mammaria, nelle ghiandole surrenali, nei reni, nella vescica, nelle ossa, nel pancreas, nell’utero e nella milza», hanno scritto i ricercatori. Spiegando che la maggior parte di questi tumori ha una frequenza naturalmente inferiore all’1% nel ceppo utilizzato per l’esperimento.
«Circa la metà dei decessi per leucemia osservati negli animali trattati si è verificata in ratti di età inferiore a un anno, il che corrisponde a 35-40 anni per un essere umano», ha spiegato Daniele Mandrioli, direttore del Centro di ricerca sul cancro dell’Istituto Ramazzini e coordinatore di questo lavoro. Lo scienziato ha inoltre specificato che esaminando altri milleseicento ratti dello stesso ceppo come controlli, cioè non esposti a sostanze tossiche, «non sono stati registrati casi di leucemia in animali di età inferiore a un anno».
Pressioni su Efsa e Epa: serve una risposta alla nuova ricerca
Questa nuova prova dovrebbe quindi porre fine alla decennale controversia tra la Iarc (che nel 2015 ricordiamo ha classificato il glifosato come «probabile cancerogeno per l’uomo») e le agenzie di regolamentazione europee e americane. Le quali, adducendo dubbi scientifici, ma con tutta probabilità come abbiamo visto sotto il peso del lobbying di Monsanto e dell’industria chimica, continuano a ritenerlo innocuo. E a permettere il suo indiscriminato utilizzo. O almeno la pensano così diversi scienziati e ricercatori.
«Lo studio pubblicato riporta un ulteriore aumento statisticamente significativo del numero di tumori negli animali esposti, il che rafforza ulteriormente la “prova sufficiente”» cui si appigliavano le agenzie di regolamentazione, dice infatti a Le Monde l’epidemiologo tedesco Kurt Straif, ex responsabile del programma di classificazione dei cancerogeni dell’Iarc. «La nuova pubblicazione riporta anche un aumento della leucemia in età relativamente giovane nei roditori esposti a dosi molto basse durante la gravidanza. E questo aggiunge ulteriori preoccupazioni».
Alla richiesta di un commento da parte del quotidiano francese, l’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha dichiarato di aver richiesto invano i dati grezzi dell’esperimento condotto negli ultimi mesi dal team di ricercatori per conto dell’Istituto Ramazzini. E di non aver agito perché non c’erano dati sufficienti. Ma come spiega il direttore Daniele Mandrioli: «Abbiamo fornito alle autorità regolatorie tutto ciò che potevamo condividere in attesa della pubblicazione ufficiale dei nostri risultati. Ora che abbiamo un articolo sottoposto a peer review e debitamente pubblicato, saremo in grado di fornire ulteriori dati alle parti interessate». Chissà se ora le agenzie di regolamentazione europee e americane decideranno di muoversi. O se continueremo a morire di glifosato.
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