I green bond sono troppo spesso strumenti di greenwashing
I green bond dovrebbero essere al servizio della transizione ecologica, ma finiscono per essere strumenti di greenwashing. Come risolvere?
I green bond dovrebbero rappresentare un volano per la transizione ecologica. Consentendo ad aziende e soggetti pubblici di finanziare le riconversioni e i cambiamenti necessari per minimizzare l’impatto in termini di emissioni di gas ad effetto serra. Dovrebbe perciò trattarsi di prodotti finanziari per definizione sostenibili.
Eppure, un’analisi di Reclaim Finance spiega che molte obbligazioni verdi in realtà servono a poco dal punto di vista ambientale. Ciò soprattutto a causa di un quadro normativo ancora troppo poco stringente. «I green bond coprono ad oggi una moltitudine di realtà, con finanziamenti di progetti che di verde hanno solo l’etichetta. E tra i soggetti emittenti ci sono anche alcuni soggetti noti per l’inquinamento prodotto».
I green bond finiscono per essere strumenti di greenwashing
Ma non è tutto: studiando le caratteristiche dei green bond, ci si rende conto che essi in linea generale assomigliano moltissimo alle obbligazioni tradizionali. Il che li rende, sostanzialmente, degli strumenti di greenwashing. «Per rendere i green bond davvero utili per la trasformazione necessaria – prosegue Reclaim Finance – occorre assicurare il carattere davvero ecologico dei finanziamenti concessi. Nell’ottica di garantire che le emissioni legate ai progetti siano in linea con la limitazione della crescita della temperatura media globale ad 1,5 gradi. E che non finiscano a settori nocivi per il clima».
In questo senso, soltanto le imprese che abbiano adottato seri piani di decarbonizzazione dovrebbero poter usufruire di tali strumenti. La testata statunitense The Intercep ha denunciato invece casi allarmanti. Il giornale ricorda la situazione allarmante della deforestazione in Amazzonia. Aumentata notevolmente negli anni dell’attuale presidente ultra-conservatore e negazionista dei cambiamenti climatici, Jair Bolsonaro.
A beneficiarne è principalmente l’agroindustria: un settore che vale 359 miliardi di dollari. «Numerosi attori della finanza internazionale – spiega il giornale americano – stanno puntando su un possibile boom dei prezzi delle materie prime. E stanno cercando di aumentare il peso del settore agricolo nei propri portafogli. A partire da nazioni come il Brasile, leader mondiale nella produzione di soia e carne bovina».
La Climate Bond Initiative che finanzia la deforestazione
Così, nomi noti come i fondi BlackRock e Vanguard, o la banca JPMorgan, «hanno iniettato 157 miliardi di dollari in imprese legate alla deforestazione nei cinque anni successivi al raggiungimento dell’Accordo di Parigi sul clima». Ovvero dal dicembre 2015 in poi. Il problema è che in alcuni casi parte del denaro sarebbe passata proprio sotto forma di finanziamenti verdi.
«Decine di grandi investitori di tutto il mondo – prosegue The Intercept – hanno formalmente sostenuto il governo Bolsonaro sull’agricoltura. Attraverso la Climate Bonds Initiative (CBI), hanno potuto ripulire l’immagine di alcune delle aziende più problematiche da un punto di vista ecologico ed etico. Facendole diventare “green”, “sostenibili” e “allineate agli obiettivi climatici”». Il risultato è che il 56% degli americani che hanno investito i loro risparmi attraverso strumenti finanziari, finanzia – anche inconsapevolmente – le operazioni di distruzione della foresta amazzonica.
La Climate Bonds Initiative citata dal giornale americano è un soggetto senza scopo di lucro. Si presenta come la sola organizzazione che lavora unicamente per mobilitare il mercato obbligazionario al fine di lottare contro il riscaldamento globale. Il problema è che tra i principali soggetti che ne fanno parte ci sono anche grandi banche come Bank of America e HSBC. Così come fondazioni come la Rockefeller.
Sui green bond manca un inquadramento normativo condiviso
Anche qui, a mancare è un inquadramento normativo condiviso. Nel 2013 furono adottati i Green Bond Principles, ma si tratta di standard poco precisi e insufficienti per scongiurare pratiche di greenwashing. Così, denuncia Reclaim Finance, «le obbligazioni verdi hanno permesso di finanziare progetti controversi. Come le grandi dighe promosse dalla francese Engie, o piani legati al carbone in Cina».
Di recente, un autentico scandalo è stato rappresentato dal progetto di espansione dell’aeroporto internazionale di Hong Kong. All’inizio di gennaio, 22 banche – tra le quali colossi come BNP Paribas, HSBC e UBS – hanno proposto di investire in un maxi-bond da 4 miliardi di dollari. Un’iniziativa autorizzata dall’Agenzia di garanzia della qualità dello Stato asiatico e da Sustainalytics, divisione di Morningstar. Ebbene, dei 4 miliardi, 1 miliardo era legato ad un green bond. Eppure la crescita prevista del traffico aereo nello scalo sarebbe tale da provocare le emissioni di tre nuove centrali a carbone.
La stessa CBI, d’altra parte, ammette che la maggior parte dei green bond (per un valore di 90,1 miliardi di dollari) non è allineata all’Accordo di Parigi. La quota in linea con l’obiettivo meno ambizioso indicato nel 2015 nella capitale transalpina, quello dei 2 gradi centigradi, è pari ad appena 66,5 miliardi.
Come rendere davvero “green” i green bond
Per rendere i green bond davvero “green” occorrerebbe inoltre che essi fossero emessi ad un prezzo superiore rispetto alle obbligazioni tradizionali. L’idea è infatti che i progetti verdi siano più difficili, in alcuni casi, da finanziare, e per questo si ricorre a tali strumenti. Che dovrebbero incitare, appunto, le aziende a sceglierli. Ma se i tassi che pagano ai soggetti che emettono i green bond sono identici a quelli delle obbligazioni standard, perché quelle società dovrebbero essere incoraggiate a scegliere la strada dell’ecologia?
Servirebbero inoltre certificazioni terze e indipendenti, per garantire che il denaro legato ai green bond sia davvero orientato verso progetti di riduzione delle emissioni climalteranti.