Guerra, ESG e marketing. Il mercato delle cause umanitarie “à la carte”
La guerra in Ucraina rilancia gli investimenti nella Difesa. Pubblici e privati. Perfino di fondi che si dicono sostenibili
C’è fermento negli uffici marketing delle multinazionali. Fuori dagli open space del centro c’è una guerra farlocca, perché quella vera in Ucraina chiama al posizionamento e c’è il grosso rischio di non apparire dalla parte giusta della barricata.
I pacifisti rischiano in un attimo di essere bollati come figli di Putin
È un attimo. Lo sa chiunque cerchi di avere uno sguardo pacifista, o in ogni caso non polarizzato, su quello che sta accadendo sul confine russo. In poco meno di un secondo rischi di essere messo tra i figli di Putin. E per la brand awareness questo è chiaramente un grosso guaio. Per questo è indispensabile avere persone che in pronta reazione si adoperino per scrivere un comunicato stampa, o un post sui social.
Sia chiaro che si parla di apparenza. Di avere le bandiere giuste da sventolare sulle facciate dei grattacieli, non certo di strategie di medio lungo periodo. La salesforce tower di San Francisco, per dire, è addirittura stata costruita prevedendo che di volta in volta i suoi 61 piani potessero essere colorati in base alle cause del giorno. Il municipio di San Francisco ha un calendario delle cause e dei relativi colori che ne addobbano la facciata. Perché il marketing, là, è una cosa seria.
Il cause related marketing, in particolare, è letteralmente uno strumento come gli altri per ottenere un ritorno in termini di immagine e reputazione. E va da sé che, nel momento in cui non servirà più la causa sarà abbandonata. Magari sostituita da un’altra emersa nel frattempo, oppure lasciata sfumare. Alla bisogna, e avendone il carisma, se ne potrà sempre generare anche una ad hoc, qualora niente fosse disponibile sullo scaffale.
Le guerre vere e quelle del marketing
Il problema è che, come tutte le guerre, anche quelle del marketing vivono dinamiche stupide, just in time. Dedicate ad un istante e solo a quell’istante. Soprattutto oggi. Le banche, che nel nostro modello finanziarizzato sono come portabandiera alle olimpiadi, in questi giorni sono protagoniste delle situazioni più surreali. Una delle più impegnate in Italia nel sostegno al commercio dei sistemi d’arma nucleare, ha pensato che il suo dovere fosse quello di mettere delle bandiere Ucraine in giro per le sue sedi storiche. Un’altra, che stava piacevolmente sostenendo le trivellazioni nell’Artico per la ricerca di nuovi giacimenti ha sospeso tutto, e non perché si sia accorta che stava massivamente contribuendo alla trasformazione del pianeta in un grande forno, ma perché il suo partner tecnologico era russo.
Clima
Chi finanzia le trivelle nell’Artico
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Altre, forse più coraggiose, si stanno invece rimangiando un bel po’ di impegni presi quando le cause della sostenibilità andavano di moda. E riscrivono policy di finanziamento al mercato delle armi perché da un paio di settimane siamo tornati a masticare il latino. Quindi è opinione diffusa che se si vuole la pace va preparata la guerra.
L’1,5% del Pil alla Difesa non bastava: la guerra traina nuovi investimenti
Immaginatevi i sorrisi dei lobbisti a libro paga delle multinazionali del settore, se ci riuscite. Evidentemente l’1,5% per cento del Pil dell’Unione europea, i 198 miliardi a cui siamo giunti dal 2014 ad oggi non bastavano.
A chi legge di finanza etica la cosa non parrà poi così pazzesca. La finanza etica è nata proprio dall’esigenza di avere strumenti pratici che potessero essere efficaci ed efficienti. Slegati dal momentum dei mercati. E per reagire all’inattività della politica attorno alle questioni più controverse che hanno animato la seconda metà del ‘900, quando era normale rifiutare il ruolo di “polizia morale” del denaro; immemore di esserlo stata di buon grado quando gli conveniva farlo.
Spinta dal successo di quella specifica causa la politica è poi stata costretta ad agire. Anche perché nel frattempo i banchieri si erano inventati le politiche ESG. Avevano eletto a causa del momento la sostenibilità ambientale. E avevano cominciato a raccogliere carriole di denaro di fondi pensione e compagnie simili su prodotti con impronte di CO2 a volte solo di poco inferiori a quelle “brutte e cattive” dello Standard & Poor’s, per esempio.
Non tutta la finanza sostenibile lo è davvero. Solo la finanza etica è una garanzia
120 miliardi di dollari nel 2021. Investiti in fondi e derivati vari che dell’ambiente avevano assunto giusto il colore di base. Ma che poi non utilizzano se non per meno della metà i dati climatici delle aziende per stabilire se includerle o meno nella lista.
Con la questione del disarmo non ci provano nemmeno. In verità non ci hanno mai provato, nemmeno ai tempi in cui Zanotelli riempiva i teatri e le bandiere arcobaleno riempivano i balconi. E adesso provano l’affondo perché fondamentalmente non sanno il vero motivo per cui fanno quel lavoro per cui sono pagati, o forse sono convinti di essere pagati per essere cool, come se la finanza sostenibile fosse l’informal friday della settimana.
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Non li sfiora nemmeno l’idea di essere lì per cambiare la cassetta degli attrezzi finanziari, per sfidare la cecità di un’industria per la quale le esternalità negative sono quella cosa che in una qualche maniera verrà compensata con qualche arbusto in Burkina Faso, una milionata di euro in aiuti ai profughi e qualche bella foto sul sustainability report. O su Instagram.
Sapevano tutti perfettamente che la Russia era in mano ad un despota. E sapevano tutti perfettamente che l’oil&gas sarebbe stata l’arma più robusta nei suoi arsenali. Ma hanno fatto di tutto per poterne inserire almeno una parte nella tassonomia europea delle attività economiche considerate sostenibili. E ora che i loro “asset” perdono tra il 66 e il 91% provano a spostarsi sulle armi. Perché le guerre, si sa, possono essere anche giuste. A volte persino sante.