H&M, Google, Apple e le altre. La neutralità climatica solo a parole
Secondo un rapporto di Carbon Market Watch, troppe multinazionali si riempiono ancora di parole roboanti sul clima ma condite da pochi fatti
Impegno. Secondo il dizionario della Treccani, significa «obbligo, assunto nei riguardi di altre persone, con cui ci si impegna a fare, a consegnare, a corrispondere qualche cosa, a eseguire una prestazione, ecc.». O, anche, «cura attenta e diligente, impiego di tutta la propria buona volontà e delle proprie forze nel fare qualche cosa». Quando si parla di multinazionali e neutralità climatica gli obblighi, sulla carta, ci sono. A mancare, però, sembra essere l’impiego di tutta la buona volontà e delle proprie forze. È quello che emerge dalla lettura del nuovo Corporate Climate Responsibility Monitor redatto dalla Ong belga Carbon Market Watch e dal think tank tedesco New Climate Institute.
Da 24 aziende il 4% delle emissioni globali
Il rapporto analizza gli impegni e le azioni compiute delle 24 più grandi multinazionali globali per la neutralità climatica. Colossi che, da soli, rappresentavano il 4% delle emissioni globali nel 2019 e un fatturato dichiarato nel 2021 di oltre 3mila miliardi di dollari. Circa il 10% dei ricavi totali delle 500 aziende più grandi al mondo. Dieci di queste aziende erano state analizzate anche nel 2022, il che permette di valutare i progressi compiuti nel corso dell’ultimo anno. Aziende che si definiscono “leader” nella lotta ai cambiamenti climatici.
Ciò che emerge è che nessuna di queste 24 multinazionali è ancora allineata con gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi. Gli impegni climatici a breve e lungo termine, le riduzioni delle emissioni previste così come l’uso di sistemi di compensazioni sono valutati dagli autori del rapporto in base a criteri di integrità e trasparenza. Nessuna azienda ha ottenuto il punteggio massimo. Come lo scorso anno, solo una, il colosso delle spedizioni danese Maersk, si è classificato con un punteggio di “integrità ragionevole”. Seguono Apple, ArcelorMittal, Google, H&M Group, Holcim, Microsoft, Stellantis e Thyssenkrupp con un punteggio di “integrità moderata”. Mentre le altre 15 aziende si trovano in fondo alla classifica. Chiusa da American Airlines, Carrefour, JBS e Samsung Electronics.
Promesse vaghe e poco credibili sulla neutralità climatica
Quasi tutte le aziende analizzate hanno annunciato obiettivi di carbon neutrality o riduzione delle emissioni al 2030. Ma, sottolineano gli autori della ricerca, sono target che non possono essere presi sul serio. Per molte aziende questi obiettivi riguardano solo le emissioni dirette (scope 1) o quelle relative all’energia acquistata (scope 2), ma solo alcune categorie di emissioni indirette (scope 3). Che rappresentano però il 90% delle emissioni di gas climalteranti per la maggior parte di queste aziende. Per altre, i target sono ritenuti dagli analisti fuorvianti, perché dipendono fortemente da piani di compensazione.
Promesse vaghe e poco credibili che porterebbero a una riduzione delle emissioni del 36% entro il 2050. Mentre l’obiettivo net zero imporrebbe un calo del 90-95%. «In modo fuorviante, la metà delle aziende valutate – tra cui Apple, DHL, Google e Microsoft – dichiara già la neutralità delle emissioni di biossido di carbonio, ma queste dichiarazioni coprono solo il 3% delle emissioni delle aziende», affermano gli autori del rapporto. «E, cosa ancora più preoccupante, tre quarti delle aziende prevedono di compensare o azzerare una parte significativa delle loro emissioni con carbon credit provenienti da progetti di silvicoltura e di altri usi del suolo».
«Non soltanto si tratta di soluzioni temporanee, ma servirebbe un secondo Pianeta Terra per poter consentire di assorbire le emissioni globali, se tutte le aziende adottassero la strategia della compensazione», sottolinea Sam Van den plas, dirigente di Carbon Market Watch.
L’illusione della compensazione
Preoccupante, dunque, anche perché quello delle compensazioni appare sempre di più un modo per aggirare il problema e continuare con il business as usual. Una recente inchiesta a cura di Guardian, Die Zeit e SourceMaterial ha rivelato che oltre il 90% dei piani di compensazione approvati dal principale certificatore mondiale sono, in gran parte, sostanzialmente privi di valore. E potrebbero addirittura peggiorare il riscaldamento globale.
Un’indagine durata nove mesi su Verra, uno standard per la certificazione delle riduzioni delle emissioni di biossido di carbonio che solleva ad esempio interrogativi sui crediti acquistati da aziende del calibro di Disney, Shell e Gucci. «Alcune di loro» – scrive il quotidiano britannico – hanno etichettato i loro prodotti come carbon neutral o hanno detto ai consumatori che possono volare, comprare vestiti o mangiare determinati alimenti senza peggiorare la crisi climatica».
Il rapporto 2022
Ikea, Amazon, Google & co. Il fallimento delle promesse di neutralità climatica
Un rapporto di NewClimate Institute fa luce sugli impegni delle 25 più grandi multinazionali globali per la neutralità climatica
Insetting, un altro modo per non mettere in discussione il business as usual
Un altro problema evidenziato dalla ricerca è la tendenza emergente verso il cosiddetto insetting. Un concetto vago, promosso da alcuni attori come un’alternativa migliore alla compensazione, soprattutto per le aziende che hanno legami con i settori dell’agricoltura e del consumo di suolo nelle loro catene di approvvigionamento.
L’insetting viene descritto in due modi dalle aziende. Nel primo caso, si tratta di un progetto di riduzione delle emissioni simile alla compensazione e che viene attuato all’interno della catena del valore dell’azienda, piuttosto che al di fuori di essa. A ben vedere, sottolinea il Corporate Climate Responsibility Monitor, si tratta semplicemente di una misura della riduzione delle emissioni dell’azienda stessa. Nel secondo, si parla di progetti di rimozione e stoccaggio della CO2 all’interno della catena del valore di un’azienda, per esempio nei suoli agricoli.
Molte aziende stanno spingendo affinché vengano approvati standard che rendano l’insetting una pratica di compensazione riconosciuta. Ma la “Science Based Target initiative” (SBTi), un partenariato promosso da UN Global compact (UNGC), World Resource Institute (WRI), Carbon Disclosure Project e WWF per supportare le aziende nell’adozione di piani di mitigazione e transizione, è chiara nel dire che gli obiettivi di riduzione delle emissioni possono essere raggiunti solo riducendole effettivamente.
Vietare il greenwashing da parte delle aziende
Il Corporate Climate Responsibility Monitor include anche una serie di raccomandazioni per i governi e le aziende. Innanzitutto, gli esecutivi dovrebbero vietare l’uso di termini fuorvianti, come carbon neutral, o affermazioni non supportate dai fatti nelle comunicazioni aziendali. Le aziende, da parte loro, dovrebbero considerare i danni reputazionali derivati dalla diffusione di informazioni false o imprecise e il rischio di contenziosi legati a pubblicità ingannevoli.
L’Unione europea, da parte sua, sta aggiornando la legislazione sulla protezione dei consumatori, soprattutto per difenderli dalle pratiche di greenwashing. Tuttavia, le proposte avanzate finora, secondo Carbon Market Watch e altre Ong tra cui ClientEarth, ECOS e EEB, non sono abbastanza ambiziose. E per questa ragione il 13 febbraio hanno inviato una lettera aperta alle istituzioni comunitarie esortandole a mettere in atto un divieto assoluto sull’utilizzo di espressioni come “carbon neutral”, “CO2 neutral”, “CO2 compensato”, “climate positive”, “net zero”, eccetera.