L’intelligenza artificiale prepara la guerra fredda del nuovo millennio

Lo sviluppo dell'intelligenza artificiale per scopi militari è il cuore del nuovo scontro tra Stati Uniti e Cina

L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney

Sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA) in ambito bellico si sta assistendo a una sorta di riedizione della guerra fredda. Dove da una parte c’è il cosiddetto blocco occidentale, Stati Uniti e Nato, dall’altro la Cina. E dove tutti sanno che l’ascesa dell’IA è irreversibile, per cui corrono per arrivare prima degli altri.

La guerra algoritmica dell’IA

Maven è il nome del progetto alla base della crescente diffusione dell’IA nelle forze armate Usa. Un documento del 2017 del dipartimento della Difesa (DoD) sottolineava la necessità, per mantenere il vantaggio sui concorrenti, di integrare nelle attività del DoD l’utilizzo dell’IA, la gestione dei big data e il machine learning. Da qui l’attivazione del progetto Maven tramite la costituzione di un team interfunzionale di guerra algoritmica: AWCFT (algorithmic warfare cross-functional team).

Tre anni dopo, nell’estate del 2020, accadeva un episodio fondamentale di questo percorso. In un’esercitazione condotta a Fort Liberty, importante base militare americana nella Carolina del Nord, un carro armato ormai dismesso veniva identificato attraverso l’IA. E dopo approvazione umana, le coordinate della sua posizione venivano inviate a un lanciarazzi che facendo fuoco lo distruggeva.

Si materializzava così uno degli obiettivi principali del progetto Maven: applicare tecnologie di visione artificiale, ad esempio attraverso l’utilizzo di droni, per identificare automaticamente e classificare gli obiettivi da colpire.

Il ruolo delle Big Tech

Inizialmente pensato per l’impiego durante le esercitazioni, il progetto è stato progressivamente affinato e migliorato. Anche grazie al supporto di società Big Tech private. E le soluzioni sviluppate sono state poi utilizzate su scenari di guerra reali, ad esempio in Yemen, Siria, Iraq. Di recente si è anche avuto, sempre in una base militare su suolo americano, il primo combattimento tra un caccia controllato da IA e uno guidato da un essere umano.

Questi sistemi vanno ormai molto al di là dell’identificazione degli obiettivi. Identificano movimenti di truppe, ottimizzano lo schieramento sul campo, aumentano la consapevolezza dello spazio in cui si svolgono le battaglie, supportano la logistica.

Per farlo, utilizzano diverse fonti di dati, dalle immagini satellitari ai dati di geolocalizzazione, alle intercettazioni di comunicazioni. Le aggregano, le analizzano e poi le rendono utilizzabili operativamente. In modo infinitamente più preciso e soprattutto più veloce di quanto gli essere umani potrebbero mai fare.

Gli investimenti in area Nato

I programmi di sviluppo di questi sistemi, inoltre, da sperimentali sono diventati strutturali e i loro finanziamenti sono aumentati: tre miliardi di dollari sono stati richiesti dal Pentagono al Congresso Usa solo nel bilancio 2024 per attività militari legate all’IA.

Veniamo alla Nato, che annovera l’IA fra quelle che chiama «tecnologie emergenti e dirompenti» (emerging and disruptive technologies, EDTs). Insieme a tecnologie quantistiche, biotecnologie, sistemi ipersonici. L’investimento in queste tecnologie, secondo la Nato, può rendere le forze armate più efficienti, resilienti, efficaci. E addirittura sostenibili (da capire come, francamente). Per giunta a costi inferiori.

Per sviluppare le EDTs è stato ad esempio varato il Fondo per l’innovazione della Nato, primo fondo di venture capital multi-sovrano, con 24 Paesi aderenti e una dotazione iniziale di un miliardo di euro per investire in start-up del settore. Il Defense Innovation Accelerator per il Nord Atlantico (DIANA) promuove inoltre la cooperazione transatlantica in quest’ambito. C’è poi anche un Comitato di supervisione sui dati e l’IA, che si occupa dell’uso responsabile dell’IA, con tanto di standard di certificazione.

E la risposta della Cina

Sul versante opposto della trincea della nuova guerra fredda, la Cina non sta certo a guardare. La Strategic Support Force dell’esercito cinese ha il compito di preparare le forze armate alla «guerra intelligente». E ha di recente pubblicato un annuncio per 500 dipendenti provenienti da università specializzate in IA.

L’esercito cinese ha anche affermato, e mostrato in un video ufficiale, che i suoi droni aerei sono capaci di raggrupparsi in sciami, auto-guidarsi, auto-ripararsi. E così completare le proprie missioni senza ulteriore aiuto umano. Allo sviluppo di sciami di droni, aerei e marittimi, si guarda in particolare nella prospettiva di un possibile futuro scontro con gli Stati Uniti per Taiwan. Dove pare potrebbero risultare decisivi.

Anche in Cina, infine, come negli Usa, per sviluppare l’IA in chiave bellica si punta sull’alleanza col settore privato. Ad accomunare i due fronti della nuova cortina di ferro c’è la consapevolezza del rischio che le nuovi armi che sfruttano l’IA possano diventare sempre più spietate, devastanti e soprattutto, una volta innescate, inarrestabili. Proprio perché dotate in un certo senso di “vita” e “intelligenza” proprie.

L’accordo sull’IA bellica tra Xi e Biden

Forse questo spiega perché ci si è seduti attorno a un tavolo per parlarne. Ad esempio per decidere se debba essere solo facoltativo o invece obbligatorio che il controllo finale sulle cosiddette «armi autonome» resti in capo all’essere umano. Questione chiave a detta degli esperti per determinare il vantaggio effettivamente ottenibile con il loro utilizzo.

Xi Jinping e Joe Biden pare abbiano raggiunto un accordo almeno a parole per avviare gruppi di lavoro sulla sicurezza dell’IA. Del resto ad auspicare la collaborazione tra Cina e Stati Uniti, per porre un freno alla proliferazione delle armi basate su IA, era stato prima di morire lo stesso Henry Kissinger. Uno che a ragionare di guerra, e di guerre, ha passato la vita.