Il numero di conflitti nel mondo è il più alto dalla Seconda guerra mondiale
L'Indice globale della pace misura ogni anno i livelli di diffusione di guerra e di pace nel mondo assegnando un punteggio a ogni Stato
È un tempo di guerra. Non a caso, i principali posti di potere sono occupati da uomini forti. Non si tratta solo dei casi mediaticamente più rilevanti. Le dichiarazioni deliranti di Donald Trump su Groenlandia e Panama. La furia israeliana liberata da Benjamin Netanyahu su Gaza. Il delirio di onnipotenza che ha spinto Vladimir Putin prima a invadere l’Ucraina e poi a minacciare la pace continentale e globale.
La fotografia della situazione ce la offre l’edizione 2024 dell’Indice globale della pace (Global peace index, Gpi), uno strumento che da 18 anni monitora la situazione del mondo. Il Gpi, creazione del think thank Institute for Economics & Peace, fa le pagelle della capacità di nazioni, aree e continenti di mantenere la pace. L’ultimo rapporto ci avvisa che siamo sull’orlo di un abisso.
Nei conflitti contemporanei, i civili sono il 90% delle vittime
Come spiega Simonetta Gola, responsabile della comunicazione della ong Emergency, «nei conflitti contemporanei i civili sono il 90% delle vittime. Ogni guerra consuma un’enormità di risorse che potrebbero essere usate per garantire i diritti fondamentali». È proprio a partire da questi due dati che è nata R1PUD1A, la campagna ispirata all’articolo 11 della Costituzione italiana.
«Negli ultimi anni – riporta Gola – chi ha provato a parlare di pace è stato trattato come un illuso, quando non come una persona in mala fede. Ma la pace non è un’ambizione individuale. Il ripudio della guerra, e di quello che essa comporta sempre, sta nella nostra Costituzione». Hanno già manifestato la volontà di partecipare alla campagna più di 100 Comuni. «Chiediamo che l’Italia tenga fede alla sua Costituzione, che sia impegnata in prima linea non nella vendita o nella fornitura di armi, ma nella composizione dei conflitti».
Il quadro d’insieme secondo l’Indice globale della pace
La guerra non arriva con le dichiarazioni e con i proclami. È un parto complesso, il prodotto di una lunga gestazione le cui tappe sono spesso non riconoscibili. Guardare al risultato finale del processo corale che stiamo costruendo non è semplice, ma mettere in fila tutti i passaggi ricostruisce un quadro inequivocabile. Il Gpi 2024 lo ha fatto e lo ha illustrato a istituzioni, accademici, giornalisti, attivisti, divulgatori e società civile. «Il mondo è a un bivio. Senza uno sforzo concertato, c’è il rischio di un aumento dei conflitti più grandi», si legge.
Arriviamo al 2025 infrangendo diversi record che, come civiltà, avremmo potuto serenamente risparmiarci. Da quando esiste l’Indice globale della pace, le tendenze di militarizzazione delle società erano state in costante diminuzione. Hanno cominciato a rialzarsi lo scorso anno in ben 108 Paesi. 110 milioni di persone sono sfollate o rifugiate; 95 milioni sono invece gli sfollati interni a causa di conflitti violenti.
Quanti sono i conflitti, grandi e piccoli, nel mondo
Il numero di conflitti grandi e piccoli, potenzialmente pericolosi, è il più alto dalla Seconda guerra mondiale: 56. La competizione tra grandi potenze è la più elevata di sempre; le potenze di medio livello stanno crescendo e rivendicano centralità nelle loro regioni. Il numero di Paesi impegnati in conflitti internazionali non è mai stato così elevato da quando l’Indice globale della pace ne porta il conto: novantadue. La situazione più grave è quella dell’Africa sud-sahariana, dove il deterioramento è del 134%; seguono Asia meridionale e l’area Mena (Medio Oriente e Nord Africa).
I conflitti minori sono sempre di più, questo aumenta il rischio che divengano grandi guerre. Basta guardare alla storia recente. Nel 2019 Etiopia, Ucraina e Gaza erano classificati come conflitti minori. Il quadro è in peggioramento anche in confronto alla storia meno recente. Rispetto al passato, aumentano le guerre che non finiscono mai. Negli anni ’70 si chiudeva con una vittoria definitiva di una delle due parti il 49% dei conflitti e con un accordo di pace il 23%. Nel 2010 siamo scesi al 10% per i primi, e al 4% per i secondi.
Quanto spendiamo per la violenza e quanto per la pace
In tutto il mondo, nel 2023, la violenza è costata più di 19mila miliardi di dollari in termini di potere d’acquisto. Per capirci, è il 13,5% del prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Sono 2.380 dollari per ognuno degli esseri umani esistenti, dalle baraccopoli di Mumbai agli attici vista Central Park a Manhattan. Sono molti soldi, e sono molti in più anche rispetto agli anni precedenti: è un aumento di 158 miliardi di dollari.
Cosa ne abbiamo fatto? Li abbiamo persi: sono le perdite sui Pil dei diversi Paesi a causa dei conflitti. Il 74% dell’impatto economico della violenza in tutto il mondo è costituito dalle spese militari e dalla sicurezza interna. Nel 2023, di sole spese militari, abbiamo speso 8.400 miliardi di dollari.
Guerre e conflitti violenti hanno colpito il Pil di molti Paesi. In Palestina la guerra ha influito per il 63% sul Pil nazionale, in Israele del 40%. Nel 2022, dopo l’invasione russa, l’Ucraina ha perso il 30% del proprio prodotto interno lordo; le perdite dovute alla guerra civile in Siria potrebbero arrivare all’85%. Proprio l’Ucraina, insieme ad Afghanistan e Corea del Nord, è tra i Paesi che nel 2023 hanno speso di più per la violenza: rispettivamente il 68,6%, 53,2% e 41,6% del Pil. In Africa, il Sudan ha perso il 32,8% del proprio prodotto interno lordo, il Timor Leste il 21,3; l’Angola il 19,1; l’Etiopia il 18,8%.
E quanto abbiamo speso per la pace? Decisamente poco: 49,6 miliardi di dollari, lo 0,6% di quanto abbiamo investito in spese militari.
Il Paese più pacifico è lo Sri Lanka, ultimo in classifica lo Yemen
L’Indice globale della pace assegna a ogni Paese un punteggio in base a 23 indicatori qualitativi e quantitativi. I settori analizzati sono la sicurezza sociale, l’entità di conflitti interni e internazionali e il grado di militarizzazione. Da questo calcolo emerge che la probabilità di un conflitto su scala maggiore è la più alta da quando esiste il Gpi. Lo dicono i numeri: il livello medio di pacificazione globale è sceso dello 0,56%. Può sembrare poco, ma è il sedicesimo anno di seguito in cui registriamo una discesa. Solo 65 Paesi hanno registrato un miglioramento, mentre sono 97 quelli per cui c’è stato un peggioramento. 97 in un solo anno: da quando esiste l’indice non erano mai stati così tanti.
Il Paese più pacifico del mondo è lo Sri Lanka, stabilmente in cima alla classifica dal 2008. Nel 2024 si sono aggiunti anche Irlanda, Austria, Nuova Zelanda e Singapore. Maglia nera per lo Yemen che nel 2024 ha perso 24 posizioni in graduatoria. Seguono Sudan, Sud Sudan, Afghanistan e Ucraina. L’invasione di Gaza ha avuto un peso specifico notevole: l’indice di deterioramento della pacificazione interna vede Israele al primo posto al mondo e la Palestina al quarto. Anche in Ecuador, Gabon e Haiti c’è stato un deterioramento record.
Sembra andare meglio nel Salvador, dove il calo del tasso di omicidi ha migliorato la percezione della sicurezza interna da parte dei cittadini. Positivo il bilancio anche negli Emirati Arabi Uniti, in Nicaragua e in Grecia. L’Europa è la regione più pacifica del mondo, sede di otto dei dieci Paesi in cima alla classifica. Seguono Asia-Pacifico e Nord America che, nonostante il terzo posto, è l’area in cui il peggioramento è stato più grave. L’area meno pacifica del mondo è il Medio Oriente e Nord Africa (Mena).
Le Nazioni Unite stanno perdendo il loro ruolo
I peggioramenti più rilevanti del 2024 riguardano gli indicatori del finanziamento alle missioni di pace Onu, delle percentuali di Pil dedicate alle spese militari, del numero di conflitti esterni in cui gli Stati sono coinvolti e del numero di morti che ne derivano.
Proprio sulla perdita di centralità dell’Onu, Simonetta Gola ha commentato: «Le Nazioni Unite sono nate dalla visione di uomini e donne che avevano conosciuto la guerra sulla loro pelle. Molti di loro l’avevano combattuta sul campo. Avendo visto la capacità di distruzione delle armi atomiche, conoscevano i rischi potenziali di una qualsiasi guerra futura e per questo, nel preambolo alla Carta delle Nazioni Unite, scrivono di essere determinati a “salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità”».
Questo accadeva sessant’anni fa, ma quello che sta succedendo negli ultimi mesi, soprattutto a Gaza, sembra mettere in pericolo gli intenti di quei Paesi che, pur di conservare la pace, sono stati disposti per sei decenni a limitare la propria sovranità. «Oggi gli organi che avrebbero dovuto essere fautori e garanti di quel nuovo ordine mondiale ancora esistono – spiega Gola – ma sono stati progressivamente delegittimati da alcuni Paesi che li hanno fondati. Non è un problema solo di qualche leadership di oggi, ma di una visione del mondo basata sulla disuguaglianza praticata da molti Paesi negli ultimi 70 anni».
L’Indice globale della pace svela i devastanti costi umani dei conflitti
Negli ultimi 15 anni il numero di morti dovute a conflitti è aumentato del 482%. Quello di rifugiati e sfollati interni, le perdite del Pil e la diffusione del terrorismo di almeno il 100%. Gli ultimi sedici anni hanno visto un peggioramento progressivo della situazione delle guerre nel mondo. Il punteggio medio dei Paesi è diminuito del 4,5%. L’Indice globale della pace analizza le performance di 163 Stati. 95 sono andati peggio, 66 hanno migliorato i livelli di pacificazione e in due non è cambiato nulla. Tra il 2008 e il 2023 solo sette indicatori globali su 23 sono migliorati: gli altri 17 registrano cali generalizzati. L’unico traguardo significativo che stavamo raggiungendo era un calo globale della militarizzazione: tendenza costante dal 2008 al 2019 che, però, da quattro anni si è invertita.
Nel 2022 abbiamo raggiunto il numero massimo di morti in battaglia da trent’anni; il 2023 ci regala la visione chiara di come la guerra stia cambiando. Le guerre moderne hanno costi umani devastanti. I primi due anni di guerra tra Russia e Ucraina hanno ammazzato duemila persone al mese, e nessuno sembra realmente interessato a cambiare la situazione. Difficile quantificare il numero preciso dei morti a Gaza: la furia di Israele ha distrutto gran parte delle infrastrutture e degli organi istituzionali utili a tenere il conto. Abbiamo cifre ballerine, provenienti da diverse fonti, ma mai al di sotto delle 35mila persone. L’Indice globale della pace le definisce entrambe “forever wars”. Conflitti in cui la violenza è tanto prolungata che non sembra esistere una soluzione. In cui la situazione non può che peggiorare per il sostegno militare esterno, per la sproporzione delle forze in campo, per le rivalità geopolitiche coinvolte.
Come cambia la guerra nel XXI secolo
Questo è anche il periodo in cui la guerra sta cambiando forma. Due i fattori che incidono di più: tecnologie militari da un lato, concorrenza geopolitica dall’altro. Sono tantissimi i gruppi non statali che adesso hanno accesso a tecnologie come droni e ordigni esplosivi improvvisati. Dal 2018, in particolare, l’utilizzo dei droni è aumentato del 1.000%. Basti pensare a come l’Ucraina ha tenuto testa alla temibile artiglieria russa usando droni FPV. Questo dato è interessante anche per un’altra ragione. È vero che il tasso di personale nelle forze armate è diminuito in 112 Paesi, ma le tecnologie militari nel frattempo stanno notevolmente migliorando. Una guerra hi-tech ha bisogno di sempre meno uomini in campo.
Non a caso, quest’anno gli indicatori della capacità militare degli Stati tengono conto di una serie di fattori prima ignorati. Differenze tecnologiche tra attori di un conflitto; risorse militari mobilitate; esperienza in battaglia; prontezza al combattimento; utilizzo di aerei ad ala fissa e rotante, navi, veicoli corazzati. In questo modo cambia anche la classifica. Anche se la capacità militare degli Stati Uniti è tre volte superiore a quella della Cina, quest’ultima è il Paese che ha accresciuto di più la propria posizione al mondo; seguono Francia e Russia, lievemente in calo. Stando ai nuovi indicatori, la capacità militare globale negli ultimi dieci anni è aumentata del 10%.
Anche la geopolitica rende i conflitti meno gestibili. Ci eravamo abituati a vivere in un mondo “facile” in cui una sola potenza, gli Stati Uniti, manteneva il controllo. Adesso non è più così. Gli Stati Uniti, così come l’Europa, hanno sempre mantenuto l’equilibrio delle loro regioni, nell’illusione che questo equivalesse a mantenerlo anche sul Pianeta. La crescita di attori come Cina e Russia, o di potenze che stanno assestando gli equilibri nelle loro aree di influenza, cambia tutto.
Il potere della società civile e l’esempio di Emergency
Di fronte agli scenari riportati può sembrare che non vi sia alcuna possibilità di migliorare la situazione e arginare il disastro. Non è la prima volta nella storia che accade, ma proprio questo ci insegna che c’è sempre un’alternativa. Quasi sempre, è stata costruita a partire dalla mobilitazione della società civile, disposta a rispondere massicciamente agli appelli contro la guerra. Anche secondo Gola il ruolo di cittadine e cittadini è fondamentale. «Emergency, come molte altre organizzazioni o singoli cittadini, continua a promuovere una pratica alternativa alla guerra. Nel nostro caso – spiega – curiamo le vittime e lavoriamo per diffondere una cultura dei diritti umani che, come diceva il nostro fondatore Gino Strada, sono l’unico antidoto alla guerra».
«Oggi lavoriamo in alcuni dei principali conflitti. A Gaza, in Ucraina e in Sudan, un Paese che vive la principale crisi umanitaria al mondo con 12 milioni di profughi e sfollati che non trova spazio nei nostri media», racconta. «Quando il poeta Quasimodo scriveva “sei ancora quello della fionda, uomo del mio tempo” diceva esattamente questo: abbiamo fatto progressi inimmaginabili nella scienza, nella tecnologia, nella medicina, ma siamo rimasti all’unica soluzione della violenza nei rapporti tra esseri umani. Per questo – conclude – è necessario continuare a interessarsi a quanto succede nel mondo e provare a cambiare le cose attorno a noi».