L’industria dei rating e delle certificazioni è davvero affidabile?
Certificazioni e label dovrebbero indicarci quale sia il grado di sostenibilità di un prodotto o di un'azienda. Ma mancano regole comuni
Il greenwashing non passa soltanto attraverso campagne vaghe e ingannevoli, ma anche attraverso certificazioni di sostenibilità. Che le aziende pagano profumatamente. In assenza di norme specifiche che controllino i criteri di valutazione, è nata una vera e propria industria delle certificazioni. A pagamento.
Ormai quasi tutti i prodotti presentano certificazioni di sostenibilità
Oggi una società può pagare una società terza specializzata, il cui mandato sarà darle un rating di sostenibilità. Nella speranza di farla risultare più green agli occhi dei consumatori. Il risultato è che, andando al supermercato, ci troviamo nel carrello tante etichette colorate che promettono i migliori standard di sostenibilità attraverso tutta la filiera.
In questo momento, praticamente qualsiasi articolo in commercio, a parole e secondo label autorevoli, risulta essere sostenibile. Se, da un lato, è vero che le certificazioni sono strumenti indispensabili per permettere ai consumatori di fare i loro acquisti con consapevolezza, le stesse possono essere fuorvianti . E “illudere” chi voglia accertarsi della reale sostenibilità di ciò che compra.
Le certificazioni sono una cosa seria
La certificazione, infatti, è una cosa seria. E se non è fatta con tutti i crismi può originare veri e propri disastri reputazionali. Come quello accaduto alla fabbrica di Ali Enterprises andata a fuoco in Pakistan nel 2012. Appena tre settimane prima del dramma l’azienda, che produceva capi per grandi società della fast fashion, aveva ricevuto la certificazione SA8000, massima garanzia di sostenibilità, con una particolare menzione per l’etica e la responsabilità sociale dell’impresa.
La società italiana che aveva rilasciato l’attestato non aveva neanche visitato la fabbrica, tralasciando di verificare l’esistenza di una pavimentazione fuori norma, un sistema antincendio non funzionante e l’impiego di lavoratori minorenni.
La denuncia
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Lo denuncia la Campagna Abiti Puliti: l’impresa genovese garantì la sicurezza della pakistana Ali Enterprises. Un colpo alla credibilità dei sistemi di certificazione
Un business fiorente e i rischi di conflitti d’interesse
Numerosi consumatori sono diventati ormai più esigenti. E pretendono di sapere chi, cosa, dove, come e quando è stato prodotto ciò che acquistano. La crescente consapevolezza riguardo allo strapotere delle multinazionali e ai possibili abusi che avvengono nelle catene di fornitura ha portato alla diffusione di una più ampia cultura a sostegno del commercio equo ed etico.
Ed è proprio qui, paradossalmente, che nasce l’industria delle certificazioni: la risposta del mercato alla sensibilizzazione dei consumatori. Ispirate ai principi dell’auditing finanziario, le certificazioni di sostenibilità sono ritenute un fulgido esempio del libero mercato autoregolato. Con aziende e società teoricamente indipendenti che si uniscono per risolvere problemi ambientali e sociali a cui i singoli governi, da soli, non sempre riescono a dare risposte efficaci. Peccato che la natura “mercantile” di questa industria – indipendente ma orientata, appunto, al mercato – sia proprio ciò che la rende meno affidabile.
I consumatori, legittimamente, chiedono maggiore trasparenza, ed è più che mai interesse dell’azienda garantirla. Le certificazioni, però, sono prese a titolo volontario. Le aziende non sono obbligate a farsi ispezionare, anzi: i produttori devono pagare lauti compensi a revisori terzi per verifiche e audit. È ragionevole immaginare che per le società di revisione, in competizione tra loro, l’interesse dei lavoratori e dell’ambiente possa non essere la principale priorità. In assenza di paletti regolatori, il rischio che si venga a creare un conflitto di interessi è dietro l’angolo.
Un’industria non sufficientemente regolamentata
Secondo problema: ogni certificazione fa storia a sé e non esistono criteri condivisi per redigere queste attestazioni. Lo spiegano gli studiosi dell’Institute for Multi-Stakeholder Integrity della Harvard Law School, organizzazione non-profit che studia proprio le forme di collaborazione tra società produttrici e quelle di revisione. Ciascun sistema di certificazione definisce a suo modo il concetto di “sostenibilità”, con il risultato che ogni auditor può dare un’etichetta diversa a una società o a un prodotto.
Infine, le certificazioni si limitano spesso a un solo specifico ambito di osservazione, e non descrivono l’attività di una società nel suo insieme. Limitarsi a valutare un solo aspetto della produzione può ingenerare una falsa percezione dell’eticità dell’intero business aziendale.
La finanza: un settore ipercertificato
Tra i settori più sensibili alla crescente richiesta di prodotti sostenibili c’è quello della finanza. Praticamente tutte le società di gestione del risparmio, oggi, costruiscono fondi “ESG” sulla base di label di sostenibilità ambientale, sociale e di governance emesse da apposite agenzie di rating. Questi valori possono far variare sensibilmente le vendite, ma possono a loro volta variare altrettanto significativamente a seconda di chi lo ha calcolato.
Le singole agenzie di rating selezionano a loro piacimento quali criteri prendere in considerazione, quali tralasciare, e quale importanza dare a ciascuno nelle loro valutazioni finali. Le aziende stesse, infine, hanno i modi più disparati per organizzare e diffondere le informazioni nei loro report destinati ad azionisti e consumatori.
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Come venirne a capo?
Gli studiosi di Harvard sottolineano che organizzazioni come Fairtrade International e Rainforest Alliance, per l’emissione delle loro ben note etichette, auspicano una maggiore collaborazione con i governi a supporto del loro lavoro. Per quanto riguarda l’Europa, nel settore finanziario si attende l’approvazione della tassonomia europea degli investimenti sostenibili. Essa dovrà stabilire una definizione di sostenibilità da applicare agli investimenti. Negli altri settori, in mancanza di omogenei standard di valutazione, per ora l’ultima parola resta ancora alle certificazioni a pagamento.