Lista nera anti-riciclaggio, l’Arabia Saudita ad un bivio

Il Paese arabo, storico alleato statunitense, non può permettersi di essere inserita nella lista nera anti-riciclaggio dell’Unione europea. In gioco la sua transizione post-petrolifera

Ryad, Arabia Saudita. Foto: B.alotaby Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)

Una delle ragioni principali per le quali i Paesi membri dell’Ue hanno bocciato la lista nera anti-riciclaggio predisposta dalla Commissione europea è legata ad un Paese. Uno solo, che ha creato sufficienti problemi diplomatici da convincere i governi a dire «no»: l’Arabia Saudita, alleato storico degli Stati Uniti in Medio Oriente. Nazione impegnata in una guerra complicata (e controversa) nello Yemen. E finita nel mirino per l’assassinio del giornalista Jamal Kashoggi.

Una manifestazione di protesta contro l’intervento saudita in Yemen

L’Arabia Saudita: «La lotta al riciclaggio per noi è una priorità»

Riad sta infatti immaginando un profondo cambiamento della propria economia. Ciò nell’ottica di prepararsi ad un mondo post-petrolifero. Se venisse collocata nella blacklist europea, la nazione mediorientale subirebbe conseguenze non di poco conto nella propria strategia di transizione. Per questo il regno wahhabita ha esercitato forti pressioni su Bruxelles.

Dapprima l’agenzia ufficiale saudita, la SPA, aveva parlato di «vivo malcontento». «La lotta al riciclaggio di denaro e al finanziamento al terrorismo – aveva affermato il ministro delle Finanze Mohammed Al-Jadaan – è per noi prioritaria. Continueremo a migliorare il nostro quadro legislativo per centrare gli obiettivi prefissati».

Benché non siano previste sanzioni dirette da parte dell’Unione europea, i problemi per Riad non sarebbero mancati. Il documento di Bruxelles avrebbe infatti costretto le banche europee a procedere a controlli rafforzati sulle operazioni finanziarie con i partner sauditi.

Il rischio principale di Riad: macchiare la propria reputazione

Ma anche al di là di quello finanziario, un impatto importante sarebbe legato alla reputazione della nazione mediorientale. L’immagine del Paese è stata infatti già macchiata dall’affare Kashoggi, giornalista assassinato nell’ambasciata saudita in Turchia il 2 ottobre scorso dai servizi segreti di Riad.

Le rivelazioni sulle circostanze dell’omicidio hanno suscitato infatti un’ondata di sdegno internazionale. Numerosi leader politici (e non solo) hanno chiesto di boicottare ad esempio, alla fine del 2018, la “Davos del deserto”. Ovvero l’evento col quale il regime wahhabita punta a magnificare i progetti di sviluppo economico del progetto – faraonico e costoso – battezzato “Vision 2030”.

Con esso il principe Mohammed Bin Salman vorrebbe accompagnare la transizione del regno verso un mondo senza petrolio. D’altra parte, già da tempo l’economia patisce il calo del prezzo del petrolio. Che nel 2017 ha portato ad una fase di recessione, con il Pil che si è contratto dello 0,7%. Nel 2018, l’economia è tornata a crescere, ma il deficit di bilancio è esploso.

La transizione verso l’era post-petrolifera

Per questo il Fondo monetario internazionale ha consigliato ormai da tempo alle nazioni del Golfo di accelerare la transizione. «È ora di effettuare il cambiamento. Preparare le economie all’era post-petrolifera rappresenta una priorità in tutta la regione», ha spiegato il direttore del FMI per il Medio Oriente, Jihad Azour, all’agenzia AFP.

Il piano “Vision 2030”, non a caso, comporta profonde novità in tutti i settori produttivi. Dall’immobiliare all’industria del divertimento, dal turismo al digitale. L’idea è di fare dell’austera Arabia Saudita un Paese tollerante, aperto economicamente, diversificato e influente a livello mondiale. Un cambiamento che appare del tutto incompatibile con le critiche piovute dalla Commissione europea in materia di anti-riciclaggio.