«Su debito pubblico e politiche fiscali la crisi ci offre un’occasione unica»

Mai come oggi gli Stati possono recuperare strumenti di politica fiscale persi da decenni. Intervista a Mario Pianta, docente di Politica economica

Mario Pianta, docente di politica economica presso l'università di Urbino © wisesociety.it

Dagli Stati Uniti all’Unione europea la necessità di rilanciare le economie dopo la crisi eccezionale legata alla pandemia ha fatto cambiare rotta da molti punti di vista. Sono state adottate massicce iniezioni di liquidità, che però in larga parte sono finite nelle casse delle banche. E sono state poi utilizzate a fini speculativi. Ma è stato anche introdotto un primo principio di politica fiscale comune nel Vecchio Continente, con il Next Generation EU.

Nel frattempo, indebitarsi è diventato più sostenibile. Ma di interventi sul vecchio debito pubblico ancora non si riesce a parlare. A fotografare la situazione attuale è Mario Pianta, docente di Politica economica presso l’università di Urbino.

Gli Stati dispongono oggi di margini di manovra storici in termini di indebitamento. E molti, come gli Stati Uniti, non esitano a sfruttarli. Per gli ortodossi del rigore, però, è una follia.

Il contesto della crisi pandemica ha creato una situazione radicalmente diversa rispetto al modo in cui le politiche macroeconomiche e la questione del debito pubblico erano state trattate in passato. Ovvero attraverso la lente del paradigma neoliberista. Quell’approccio vedeva infatti il debito come uno scaricare i costi dei consumi di oggi su figli e nipoti. Ma anche come un allargamento indebito dell’intervento pubblico che distorceva dinamiche di mercato e la presunta efficienza dei comportamenti finanziari.

Cosa ha cambiato la crisi sanitaria in questo senso?

La pandemia ci ha insegnato che senza intervento di lungo termine di politica economica la crisi sarebbe diventata irrimediabile. Per questo abbiamo visto un cambiamento nelle scelte di politica monetaria e fiscale ben più radicale di quello successivo al crollo della finanza del 2008. E per la prima volta operato congiuntamente in tutti i Paesi, cominciando dagli Stati Uniti per poi passare all’Europa. 

Qual è la logica di tali scelte?

Di fronte ad una crisi dell’offerta, con la pandemia che ha bloccato la produzione e con la caduta dei redditi occorrevano manovre espansive, quantitative easing. Bisognava sostenere la domanda con un nuovo ruolo da parte della spesa pubblica: quella sanitaria, ma anche quella rivolta al sostegno ai redditi. Nonché con investimenti pubblici, come nel caso del Next Generation EU dell’Unione europea e il PNRR italiano. 

Quali saranno le conseguenze per le finanze pubbliche?

Questo tipo di aumento della spesa si fa sostanzialmente da debito. Ma quest’ultimo rappresenta un’occasione di recupero di strumenti di politica economica, senza doversi neppure preoccupare né di problemi di stabilità né di solvibilità. Si tratta di problematiche ormai messe da parte anche dagli stessi vertici degli istituti monetari e delle banche centrali. Il risultato è stato un forte aumento del debito pubblico. Coloro che hanno speso di più, però, non sono i Paesi più colpiti, come Italia, India o Spagna. Sono quelli che hanno più margine di manovra, più autonomia nella politica monetaria e fiscale. 

Torniamo dunque agli Stati Uniti di Biden.

Non solo. Anche Giappone e Regno Unito, che non hanno separato la politica fiscale da quella monetaria. Paradossalmente, l’Europa meridionale e il Sud del mondo hanno avuto margini più limitati di intervento sul piano, appunto, fiscale. La possibilità di fare debito, dunque, ancora discrimina. 

In Europa un modo per evitare queste discriminazioni è riformare la BCE e imporre un approccio basato sul mutualismo?

In Europa c’è stata una svolta importante: per la prima volta, dopo 40 anni che si chiedeva di inserire un’agenda di politica fiscale accanto a quella monetaria,  sono stati fatti passi avanti. Siamo stati bloccati sulla mutualizzazione della responsabilità della politica fiscale, con la Germania che affermava di non voler pagare per conto dell’Europa meridionale. Il Next Generation EU è un cambio di rotta, per quanto con molti limiti, anche temporali, poiché introduce il principio di una politica fiscale comune. Accompagnata dalla sospensione dei vincoli del Patto di stabilità, a partire dal pareggio di bilancio e da altri paletti sugli aggregati della spesa pubblica. 

C’è modo di ipotizzare che un’operazione una tantum possa trasformarsi in una parte strutturale della politica europea? 

È in corso un dibattito su questo punto. Si tratterebbe di creare una politica fiscale comune, finanziata con tasse europee, ad esempio a carico di multinazionali o colossi del digitale. Ma anche con l’emissione di eurobond.

Basterebbe anche a garantire un’equità in Europa?

Il Next Generation EU introduce anche il principio secondo cui i fondi vanno a chi è più colpito. Il problema è però introdurre obiettivi europei al di là della pandemia. Che possono essere ad esempio la lotta ai cambiamenti climatici, la riduzione  delle emissioni di CO2. Ma anche la diminuzione delle disuguaglianze, il riequilibrio dell’imposizione fiscale o l’armonizzazione delle normative fiscali e la lotta ai paradisi fiscali interni all’Europa. O ancora  obiettivi sugli investimenti pubblici, sulla creazione di nuove infrastrutture.

Rispetto a questa partita i governi cominciano a posizionarsi: Francia e Italia hanno un approccio congiunto. E c’è un dibattito tra gli economisti che si concentra in primo luogo sul se introdurre in modo permanente strumenti di politica fiscale europea. In secondo luogo sul cosa fare del debito vecchio. Infine sulle forme di realizzazione di una simile politica fiscale.

Intanto indebitarsi è diventato sempre meno caro.

Va sottolineato quanto siano state importanti le politiche monetarie espansive, il quantitative easing con azzeramento dei tassi. Ciò ha avuto l’effetto di eliminare un po’ di vecchio debito vecchio pubblico e concedere liquidità a chi poteva comprare le nuove emissioni a tassi estremamente bassi. Questo meccanismo ha permesso di accompagnare le politiche e le risposte alla crisi pandemica, rendendo più facile il finanziamento di debito ulteriore. 

Ma questa stessa politica espansiva ha avuto effetti scarsissimi sull’economia reale, perché la liquidità è rimasta in larga parte nelle banche. Che l’hanno tradotta in pratiche speculative in Borsa, facendo salire a dismisura gli indici, in modo completamente disgiunto dalla realtà. L’ennesima conferma della dissociazione tra finanza ed economia reale, che rappresenta qualcosa di estremamente grave. 

Per lo meno è stato alleggerito il peso sui debitori.

Sì, meno tassi di interesse e riorganizzazione del debito su traiettorie più lunghe hanno aiutato. Tutto questo, però, è stato fatto con una chiara operazione integrata negli Stati Uniti, dove c’è una banca centrale con un mandato di un certo tipo. In Europa, invece, è stato fatto con un coordinamento indiretto. Inoltre, finora non si è voluto intervenire sul debito precedente. 

C’è un rischio di inflazione attualmente, che possa giustificare una revisione delle politiche espansive?

La Fed sta rialzando i tassi e anche la BCE seguirà a breve. Ma l’inflazione negli Usa è significativa, mentre in Europa lo è solo per quanto riguarda le materie prima. Non esiste un problema di inflazione macroeconomica, cioè di eccesso di domanda rispetto alla capacità produttiva. Abbiamo infatti una disoccupazione enorme rispetto ai livelli pre-cisi. Detto ciò, cominciare a parlare di ritorno al rigorismo è estremamente pericoloso perché il debito pubblico diventerebbe estremamente difficile da gestire, soprattutto nei Paesi del sud dell’Europa. Occorre perciò evitare di scivolare nel dogma della lotta all’inflazione. 

Parliamo del debito esistente. È ancora vivo il dibattito sulla possibile cancellazione. Qual è la sua posizione?

Dal punto di vista della sostenibilità non si è voluto intervenire finora sul debito precedente. Ma ora che anche la Germania ha superato il tetto del 60% nel rapporto tra debito e Prodotto interno lordo, tutti si rendono conto che occorre fare qualcosa. Prima di tutto, non ha senso continuare a dire che il debito debba essere legato al PIL. Una parte rilevante del debito di tutti i Paesi europei è stato acquistato dalla BCE: perché considerarlo ancora esigibile, se è in mano all’UE?

È una finzione affermare che quel debito esista e che sia da pagare. La BCE non ne chiederà mai il rimborso. Va perciò cancellato, se possibile anche in modo formale. Per alcuni Paesi è il 30% del debito totale. Oppure si può seguire la proposta dell’ex ministro delle Finanze della Grecia Yanis Varoufakis: trasformarlo in debito perpetuo a tasso zero, così che la BCE possa tenerlo come asset nei bilanci.

Ma senza che esso non generi gravami sui Paesi che l’hanno emesso inizialmente. In ogni caso questa parte di debito nelle casse della BCE non dovrebbe essere più calcolato nel rapporto debito/Pil. 

Quanto cambierebbero i rapporti debito/PIL?

Per la maggior parte dei Paesi tra il 20 e il 30% del debito è stato ricomprato dalla BCE. Nel caso della Grecia è più complicato perché ci sono stati titoli garantiti dall’Europa. E la varietà di asset è più complessa.

Qual è oggi il ruolo della finanza privata rispetto a quella pubblica?

Purtroppo la finanza privata ha continuato indisturbata a pesare. Ci sono state alcune modifiche precauzionali, dopo la crisi del 2008, in particolare nei regolamenti europei, per quanto riguarda il rapporto tra capitale e prestiti. E interventi per ridurre i rischi sistemici. Ma non è stato imposto alcun vincolo alla logica speculativa. 

Quindi ancora oggi potremmo aspettarci speculazioni sul possibile default di uno Stato, come accaduto con strumenti derivati come i credit-default swap?

La finanza sa adattarsi. Prima del quantitative easing guadagnava prestando soldi ai governi. Ora guadagna prendendo liquidità e speculando sulle quotazioni di Borsa. E in mancanza di regole stringenti la risposta è sì, certamente. Da questo punto di vista non è cambiato nulla.