Perché non dobbiamo avere troppa paura del debito pubblico

Il debito pubblico è esploso durante la pandemia. Ma con i tassi d'interesse bassi e le emissioni a lungo termine resta (per ora) sostenibile

La pandemia ha reso impossibile rispettare i vincoli di bilancio in numerosi Stati europei © IR_Stone/iStockPhoto

A qualche anno di distanza dalla sua introduzione, Gardiner Means, uno dei consiglieri economici dell’allora presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, affermò che il vero successo del New Deal fu di aver portato con sé «una rivoluzione del punto di vista». A cambiare non erano state, infatti, soltanto le decisioni contingenti. La novità era l’introduzione di un nuovo paradigma. È quello di cui abbiamo bisogno anche oggi, a ormai un secolo di distanza. A partire dal debito, parametro macroeconomico sul quale, assieme al Prodotto interno lordo, abbiamo centrato la maggior parte delle attenzioni negli ultimi decenni. 

Cos’è il debito pubblico

Ma cos’è il debito pubblico? La gestione di un Paese porta lo Stato e le sue amministrazioni pubbliche, centrali e locali, a farsi carico di una serie di servizi. Dalla giustizia all’istruzione, dalla salute alle manutenzione stradale, dalla ricerca scientifica alla sicurezza. Con gradi e situazioni diverse di nazione in nazione. Il “pubblico” è dunque presente in numerose attività, che vengono finanziate attraverso un bilancio

Debito pubblico
Il debito pubblico è aumentato sensibilmente nel corso della pandemia © calvste/iStockPhoto

Una serie di entrate (imposte, tasse) permettono di fronteggiare una parte delle spese. Se nel corso di un anno queste ultime superano le entrate, si ha un deficit di bilancio. Per finanziarsi, inoltre, lo Stato può decidere di ottenere denaro a fronte dell’emissione di titoli obbligazionari. Il debito pubblico è dunque la somma di tutti i deficit registrati di anno in anno e non ancora rimborsati. 

Breve storia del debito pubblico

Nelle città della Grecia antica, l’indebitamento temporaneo per conto della collettività era frequente. In particolare per poter finanziare le guerre. Ma una nozione “moderna” di debito pubblico apparirà soltanto nel corso del Medioevo. All’epoca, però, si tendeva a confonderlo con le esposizioni dei regnanti. Inoltre, per vedere apparire le prime introduzioni delle tasse sui redditi occorre aspettare il 1842 nel Regno Unito, il 1893 in Germania e il 1913 negli Stati Uniti.

Facendo un salto di parecchi decenni, il 7 febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht fu firmato il trattato che ha istituto l’Unione europea. All’epoca, furono anche stabiliti alcuni “parametri” che i Paesi membri candidati all’ingresso nell’Unione economica e monetaria (Uem) dovevano rispettare. Si puntava a garantire così, sulla base di tali “criteri di convergenza”, che i fondamentali economici degli Stati fossero sufficientemente solidi da consentire loro di adottare, in futuro, l’euro, senza porre problemi alla stabilità della moneta. 

In particolare, il tasso d’inflazione annuale di ciascuno Stato membro non doveva oltrepassare di 1,5 punti la media delle tre nazioni che presentavano il valore più basso. Il deficit non doveva essere superiore al 3% del Prodotto interno lordo. Il debito pubblico non doveva invece superare il 60% del Pil. Infine, altri due criteri erano legati al tasso di cambio e ai tassi di interesse sul lungo periodo. Da allora, la Commissione europea è incaricata di far rispettare tale disciplina di bilancio. Integrata nel 2005 da un “Patto” il cui obiettivo dovrebbe essere quello di garantire un «equilibrio sul medio termine delle finanze pubbliche». Ovvero una gestione «virtuosa” dell’indebitamento pubblico. 

In Europa nessuno è più “virtuoso” sui conti pubblici

L’intero impianto è stato tuttavia concepito sulla base di una specifica dottrina economica, basata sull’ortodossia, sul rigorismo e sulla rigidità. Prova ne è il fatto che neppure dopo l’esplosione della crisi del 2008 si è deciso di modificare i parametri di Maastricht. E di fronte ad una nazione in ginocchio come la Grecia, si preferì la scure. Ci sono volute una pandemia e la peggiore recessione della storia per, per lo meno, ottenere una sospensione. 

Da quando è esplosa la crisi sanitaria, infatti, i debiti pubblici sono schizzati alle stelle in ogni nazione, nessuna esclusa. Secondo Eurostat, il debito cumulato dai 19 Paesi dell’eurozona è aumentato nel 2020 di 1.240 miliardi di euro, raggiungendo gli 11.100 miliardi. Il che rappresenta il 98% del Pil: lontanissimo dal “virtuoso” 60%. Che d’altra parte era stato sforato anche nel 2019, con l’83,9%. Il rapporto tra deficit e Pil, inoltre, è passato dallo 0,6 al 7,2%. 

La Grecia, già schiacciata da un debito colossale, è passata a 341 miliardi, pari al 205,6% del Pil. Al secondo posto l’Italia, con il 155,8%, in aumento di 21,2 punti percentuali rispetto al 2019, ma con il valore assoluto più alto di tutti: 2.570 miliardi di euro. Perfino la Germania, prima economia europea e da sempre strenua partigiana del rigorismo, ha superato il limite del 60% (raggiungendo il 69,8%). Mentre la Francia ha toccato il 115,7%. 

Dagli Stati Uniti un nuovo paradigma?

Domanda: tutto questo deve preoccuparci? Assolutamente sì, se si ascoltassero gli ortodossi del rigore. La situazione, in realtà, è ben più complessa. Basti pensare al caso, emblematico, degli Stati Uniti. Joe Biden ha puntato per l’uscita dalla crisi su una serie di piani di rilancio giganteschi

Dopo aver presentato un piano di sostegno di breve termine all’economia da 1.860 miliardi di dollari (pari a quasi il 9% del Pil americano), il presidente degli Stati Uniti ha annunciato un secondo, epocale programma d’investimenti da tremila miliardi. Tanto che, secondo il Congressional Budget Office, potrebbe innescare un percorso che farà passare il rapporto tra debito e Pil dal 100 al 200% di qui al 2050

L’economia americana, d’altra parte, non è la sola: il 2020 ha portato con sé il più forte indebitamento pubblico dai tempi della Seconda guerra mondiale, a livello globale. Il totale della Terra ha raggiunto i 226mila miliardi di dollari. Che in rapporto al Pil mondiale rappresenta il 256%, secondo il Fondo monetario internazionale. 

La pandemia ha fatto aumentare anche il debito privato

Quest’ultimo ha specificato che «il debito contratto dagli Stati rappresenta poco più della metà di tale incremento. Il debito privato contratto dalle società non finanziarie e dalle famiglie, allo stesso modo, è cresciuto fortemente». E ciò «in particolare nei Paesi avanzati, dove il rapporto debito/Pil è passato da circa il 70% del 2007 al 124% del 2020. Mentre il debito privato è passato dal 164 al 178% nello stesso periodo».

D’altra parte le economie avanzate e la Cina cumulano oltre il 90% dell’aumento dell’esposizione debitoria del 2020 (pari a 28mila miliardi di dollari). Complici i tassi di interesse bassi, le politiche delle banche centrali (a partire dall’acquisto massiccio di bond sovrani) e i mercati finanziari ben sviluppati (e pervicacemente distaccati dall’economia reale). Al contrario delle nazioni più povere, che faticano a piazzare i loro titoli e sono costrette ad indebitarsi a tassi più alti. 

Tassi e durata: le possibili soluzioni per la sostenibilità del debito pubblico

Proprio questa potrebbe essere la risposta all’ortodossia rigorista. I debiti pubblici, infatti, sono indiscutibilmente aumentati. Ma la ripresa appare ormai, per lo meno, all’orizzonte. Non era dunque vero l’assunto secondo cui un indebitamento troppo alto impedisce la crescita economica. Inoltre, per comprendere se sia o meno sostenibile il nuovo indebitamento occorre tenere conto di due fattori. 

Il primo è legato ai tassi di interesse. Se è vero che il quantitativo è aumentato, è sceso fortemente il costo di tale indebitamento. Il mensile economico francese Alternatives Economiques sottolinea in questo senso: «Perché restare concentrati sul rapporto debito/Pil quando il costo di un debito al 120% è ormai ben più basso di quello di un debito al 60%. Inoltre, noi paragoniamo uno stock (il totale di debito accumulato) ad un flusso (ciò che produciamo in un anno). Mentre sarebbe più logico comparare un flusso (il pagamento annuo degli interessi) ad un flusso (il Pil, o il totale delle spese pubbliche)». 

L’Italia, in particolare, per circa 20 anni ha presentato quasi sempre un avanzo primario. Ciò significa che ogni anno lo Stato ha speso di meno di ciò che ha incassato. Se il debito pubblico ha continuato a crescere è stato per via degli interessi che occorre pagare. E se questi restano ragionevoli, sarà più facile per ciascun governo ottenere denaro a costi sostenibili.

La proposta Furman-Summers sull’indebitamento degli Stati

Certo, le banche centrali cominciano a ritoccare i tassi al rialzo. Ma è difficile immaginare, di qui al medio termine, aumenti significativi. Soprattutto in ragione del fatto che i rischi di impennata dei prezzi sono in realtà contenuti, almeno nel Vecchio Continente. «In Europa – spiega spiega Mario Pianta, docente di Politica economica presso l’università di Urbino – l’inflazione è significativa solo per quanto riguarda le materie prime. Non siamo in alcun modo in presenza di un problema di inflazione macroeconomica, cioè di eccesso di domanda rispetto alla capacità produttiva».

Di qui la proposta degli economisti americani Jason Furman e Lawrence Summers di considerare che finché i pagamenti di interessi sul debito restano inferiori alla media storica, gli Stati dovrebbero continuare ad indebitarsi. Il che aprirebbe orizzonti inesplorati di politica economica, di possibilità di investimenti e di scelte keynesiane

Il secondo elemento che può contribuire alla sostenibilità del debito è legato alla scadenza dei titoli di debito. È infatti sufficiente allungarne la durata per ottenere denaro a costi inferiori. C’è chi, in Europa, in piena pandemia ha emesso titoli a 50 anni a tassi particolarmente bassi, ottenendo una richiesta dieci volte superiore rispetto all’emissione stessa.

Il nodo del debito in mano alla Banca centrale europea

Fin qui ciò che riguarda i debiti contratti nei confronti di Stati ed enti pubblici. Esistono però anche altri debiti sui quali, ormai da tempo, ci si interroga. È il caso, ad esempio, di quello detenuto dalla Banca Centrale Europea. «Una parte rilevante del debito di tutti Paesi europei – prosegue Pianta– è stato acquistato dalla BCE. Non ha più senso considerarlo ancora esigibile, perché è in mano all’Unione europea: è una finzione che esista quel debito e che sia da pagare. La BCE non ne chiederà mai il rimborso».

Alcuni economisti avevano avanzato sul tema una proposta battezzata “P.A.D.R.E. Plan”. Ovvero “Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone”. Si proponeva di scambiare titoli di Stato di un determinato Paese con titoli a tasso zero, e senza scadenza, della BCE. L’ammontare dello stock sarebbe così rimasto lo stesso, ma sarebbero diminuiti di molto interessi e problemi legate scadenze e rifinanziamento.

Senza dimenticare un altro aspetto potenzialmente determinante della questione: la valutazione della ragione per la quale ci si indebita. Il dibattito è infatti spesso incentrato sul “quanto” debito si contragga, piuttosto che sul “perché”. Da qui, ad esempio, la proposta di una golden rule sugli investimenti. Che consentirebbe di scomputare questi ultimi (o almeno alcuni, come nel caso di quelli necessari per salvare il clima, per la transizione ecologica o per la riconversione dell’economia) dal calcolo del deficit. 

Sul tema, dunque, si è scatenato un ampio dibattito. Con agli estremi chi propone la cancellazione tout court e chi, al contrario, sostiene si tratti di un falso problema.

Le nazioni povere e il debito ecologico

Certamente concreta è invece la situazione di numerose nazioni povere, che ormai fronteggiano una possibile nuova crisi del debito. Già fragilizzati dalla crescita della povertà, dalla ripresa economica più lenta rispetto alle nazioni industrializzate e dalla mancanza di vaccini, più della metà dei Paesi poveri della terra oggi si trova sovraindebitata. Nel 2015 lo era solo il 30% di tali nazioni. 

Finora, i default sono stati evitati soprattutto grazie agli aiuti internazionali: il FMI ha versato 170 miliardi di dollari a 90 Stati dall’inizio della pandemia. Inoltre, l’iniziativa di sospensione del debito (Dssi) adottata dal G20 nell’aprile 2020 ha permesso a 48 Paesi di sospendere i rimborsi. Dapprima fino al 31 dicembre dello stesso anno, quindi fino al termine del 2021.

Ora, però, occorre tornare a pagare. E se si tiene conto del fatto che il debito estero di questi Stati è raddoppiato negli ultimi dieci anni, raggiungendo il 58% del loro Pil, si comprende come il passo verso una crisi rischi di essere breve. 

Esattamente come nel caso della Terra. Già, perché il mondo intero (ma soprattutto quello sviluppato) ha sviluppato un ulteriore, altro debito. Quello ecologico, nei confronti del Pianeta. È noto infatti come le risorse che consumiamo siano nettamente superiori rispetto a quelle che la Terra è in grado di rigenerare. Una situazione posta ogni anno in luce in occasione dell’Earth Overshoot Day. La giornata nella quale si “celebra” il superamento di tale limite. L’ennesima conferma del fatto che il sistema economico attuale, quello sì, non è sostenibile.