Marten Piersel: «Per salvarci serve un patto intergenerazionale»

Clima, diritti, futuro. Intervista a Marten Piersel, regista di “Everything will change”: un tuffo in un 2054 sporcato di infrarosso e ricordi

Barbara Setti
Barbara Setti
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La 63ma edizione di FDP- Festival dei Popoli, si è aperta con “Everything will change”, un film/documentario che parla di come potrebbe essere il nostro futuro tra 30 anni (spoiler, desolato). Un chiaro segno di come il festival stesso, e la sua sezione Habitat, marchino sempre di più un evento che parla di ambiente, diritti e futuro.

Il trailer di Everything will change

2052. Esiste ancora la vita sulla Terra. Ci vivono le persone, non esiste flora e fauna selvatica. Tutto è dominato da un cielo di un azzurro intenso e dalla terra e quel poco di vegetazione rimasta, di un colore rosso vivo. I colori sono bellissimi. Tre amici fanno la vita di qualsiasi ventenne precario in un mondo dove si vive nel virtuale e dove il futuro e il passato coesistono: hanno lo smartphone nella retina, comprano dischi in vinile da negozi postpunk in stile berlinese. Poi dall’interno di uno di questi dischi cade una fotografia, e tutto cambia.

Abbiamo intervistato il regista, Marten Piersel. Nato nel 1974 a Berlino da una famiglia di ambientalisti tedeschi, cosmopolita, surfista, amante della natura, con il suo film d’esordio, “This Ain’t California” (2012,) ha vinto premi in tutto il mondo. Racconta che alcuni dei suoi ricordi più cari sono stati quelli trascorsi nella natura selvaggia con suo padre, che stava lavorando per rivitalizzare le paludi della Bassa Sassonia. E che, quando ha iniziato a scrivere questo film, la sua speranza era di riuscire a portare un po’ di quel fascino per la natura sullo schermo. Ma di fare anche una chiamata alle armi per dare voce e ragioni ai ribelli, e forza a una generazione che sta già lottando per cambiare lo status quo.

In “Everything Will Change” le tre persone protagoniste, Ben, Cherry e Fini, hackerano il programma “The Show”, spostando 8,5 miliardi di telespettatori in 1 minuto. In un’involontaria comunicazione inversa che sembra rappresentare la frustrazione di chiunque, con qualsiasi mezzo, stia cercando di parlare di cambiamenti climatici. Nel suo film non si parla di politica, di fazioni, di opinioni: si va dritti al punto. Quanto è difficile arrivare dritti al punto?

Quello che abbiamo cercato di fare in “Everything Will Change” è di concentrarci sull’estinzione delle specie e sulla bellezza della natura. Ma, naturalmente, l’estinzione e i cambiamenti climatici, e quindi la politica, sono collegati. Non si può parlare dell’uno senza indagare sull’altro. Nella stessa dualità, non si può parlare della distruzione del mondo naturale senza esaminare i fattori che determinano lo sviluppo umano e la psicologia umana.

Il capitalismo, l’economia, persino la sessualità umana hanno un ruolo. Quindi, essendo tutto così interconnesso, è davvero difficile concentrarsi su un solo aspetto. Quello che abbiamo cercato di fare è stato cercare il punto di incontro tra i vari aspetti di questa discussione: le questioni della natura umana e dell’immagine di sé. La seconda metà del film pone la domanda: «Che tipo di animale siamo, cosa ci autorizza a comportarci come facciamo?». O, in modo ancora più penetrante: «La distruzione è la nostra vera natura?». Il film dà delle risposte, ma vedetele voi stessi.

Ogni volta che scorrono le immagini dei ritagli stampa con le notizie dei disastri naturali, veniva da dirsi – quasi come in un film dell’orrore – che no, non è successo adesso, pietà, fai vedere che non è nel 2019 (o nel 2010 o nel 2020). Fai vedere che potrebbe succedere ma alla fine, noi, riusciremo a cambiare. Quelle sequenze creano un’ansia incredibile.

Gli articoli lavorano per creare “scenari” all’inizio e alla fine del film. È interessante notare che è stato molto più facile immaginare lo scenario del business as usual che ci farà precipitare in una spirale di distruzione. Siamo abituati a questa distopia. Ma gli articoli utopici alla fine del film, una volta che ci siamo immedesimati, sono stati una rivelazione. È possibile immaginare piccoli passi verso un mondo migliore.

È più difficile, certo, perché dimostra che dovremo cambiare il nostro stile di vita, ma non è più divertente immaginare un titolo che recita: «Viaggi in treno in aumento, viaggi in aereo in declino, CO2 da viaggi ai minimi storici»? Oppure «L’intero Artico è stato trasformato in una riserva naturale»? O «i diritti umani di base sono stati estesi alle specie non umane»? Ci sono cambiamenti reali che possiamo immaginare e che, una volta che lo facciamo, una volta che capiamo che questo è ciò che vogliamo leggere sul giornale, diventano molto più probabili.

Perché il 2052 ha quei colori? Sono colori del tutto innaturali ma, esteticamente, bellissimi. In genere siamo abituati a vedere i futuri distopici rappresentati con colori monocromatici – scuri, beige oppure abbacinanti. Perché questa scelta estetica?

Abbiamo girato grazie a una nuova tecnologia che consente alla fotocamera di catturare non solo il normale spettro di luce che gli esseri umani sono abituati a percepire, ma anche lo spettro della luce infrarossa. Su questa lunghezza d’onda di luce, accadono cose bizzarre: la clorofilla delle piante vive diventa completamente rossa.

È un effetto che è stato molto sfruttato nella guerra del Vietnam, quando lo si usava per distinguere le chiome degli alberi dalla vernice mimetica verde sulle foto aeree. Nel film, quindi, le cose vive sono rosse, come se fossero evidenziate. Mi è sembrato un modo interessante per portare sullo schermo la discussione del film sulla vita. Inoltre, l’aspetto è fresco e futuristico, quindi ci ha aiutato a costruire l’idea che “questo è il futuro” senza costosi set e trucchi.

Azzardiamo una interpretazione al chiaro omaggio a “Ritorno al futuro”: l’alleanza intergenerazionale, il senso di coraggio e di follia per volere cambiare le cose. È questo il senso? Oppure?

Non potrei dirlo meglio di così. Credo che la discussione sui cambiamenti climatici e sull’estinzione – che è essenzialmente la discussione su come gestiamo il nostro “conto” della ricchezza naturale – debba diventare ancora più intergenerazionale. Abbiamo bisogno di contratti vincolanti tra noi e le generazioni non ancora nate. Dobbiamo capire che condividiamo questa ricchezza con le persone del futuro. Qualsiasi altra cosa equivale a un furto nei loro confronti.