«Diamo potere a chi subisce le conseguenze delle azioni economiche»

Dobbiamo cambiare modello economico e c'è un metodo utile per convincerci che è possibile farlo. Intervista all'ex ministro Fabrizio Barca

Fabrizio Barca © PES Group Committee of the Regions/Flickr

«Il modello di sviluppo attuale non funziona e va cambiato, ma è penetrato il convincimento che non ci sia un’alternativa, dall’economia alla finanza». Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione sociale del governo Monti, dal 2018 coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità, nel giorno di apertura di FestiValori, il primo festival di Valori.it dedicato alla finanza etica, analizza le storture del nostro sistema economico. E lancia alcune proposte che potrebbero aiutarci a cominciare a cambiare, almeno in parte, paradigma. 

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Il modello attuale ha mostrato nel corso dei decenni tutti i suoi limiti. Eppure anche le socialdemocrazie europee non sembrano proporre vere alternative, nonostante eventi eclatanti come le crisi a ripetizione, le disuguaglianze crescenti, le società disgregate.

È vero. È come se non reagissero neppure di fronte a campane fragorose. Il succedersi delle crisi è parossistico. E anche la retorica del “abbiamo capito” lo è. Pensiamo alla crisi finanziaria, alla crisi climatica (che procede con rapidità superiore al previsto), alla crisi pandemica (legata e amplificata da questioni ambientali), alla crisi bellica (legata a uno squilibrio geopolitico e alla perdita di capacità di cooperazione e dialogo internazionale, anche tra avversari). Il sistema inanella un flop dopo l’altro, eppure nei fatti la politica sembra fare la  resilienza al contrario. 

Come se lo spiega?

Ci sono diverse ragioni che concorrono. La più forte culturalmente è la straordinaria penetrazione del convincimento che non ci siano alternative. Ma c’è anche un’incapacità di comprendere le decisioni che hanno prodotto questi risultati. 

Eppure a livello ad esempio accademico esistono moltissime alternative che sono state illustrate, anche da studiosi di fama mondiale, come Stiglitz, Krugman, Piketty. Come mai è così radicata la convinzione che questo sia il solo modello di sviluppo possibile?

Diciamo la verità: il dubbio che non si possa cambiare ce l’abbiamo tutti. La domanda che dobbiamo porci è: come ce lo leviamo? Un metodo utile è domandarci, per ogni effetto che vediamo, quale sia la causa. È l’esercizio che con il Forum Disuguaglianze Diversità abbiamo fatto da sempre. E una causa l’abbiamo sempre trovata: per la pandemia, per la guerra in Ucraina, per il precariato nel lavoro.

Potrebbe farlo anche la politica, chi prende decisioni, chi dovrebbe orientare verso il cambiamento.

C’è anche una grande incompetenza nelle classi dirigenti. Che spiega la mancanza di coraggio. Qualche volte si intuisce che con qualcuno si potrebbe fare qualcosa, ma troppo spesso alle parole non seguono i fatti. Questo atteggiamento potrebbe essere legato alla paura degli avversari, delle lobby. Ma la realtà è che è anche una sottostima delle proprie forze. 

Quando Ferdinand Pecora, avvocato e magistrato italiano naturalizzato statunitense indagò sulle cause della crisi del ’29 tutti pensarono che fosse una battaglia persa. E invece fu un successo straordinario. 

Come si spiega il fatto che le Nazioni Unite abbiano da tempo individuato, e anche implementato, indicatori economici alternativi al Pil e però il mondo continui ad usare questo strumento, che è non solo parziale ma anche fuorviante, per stabilire se un’economia è sana o meno?

Ci sono due ragioni a mio parere. In primo luogo, va detto che finché esiste il capitalismo il Pil resterà il dominus. È intellettualmente velleitario pensare di farlo fuori. Nel capitalismo una larghissima parte degli scambi, e quindi del benessere, dipendono dal reddito. E il reddito è l’altra faccia del Pil. Quindi misurare, ad esempio, il debito rispetto al Pil è “ragionevole” nel quadro del capitalismo. In altre parole, il reddito nel capitalismo è parte delle vita umana, perché con esso si “compra” lo star bene. 

Detto ciò, esiste un’operazione raffinatissima, quella compiuta dall’economista indiano Amartya Sen, che si chiese: «Come posso misurare la dignità? O una vecchiaia sana? O la capacità di capire?». Si rese conto che le variabili erano troppe e che la forza del Pil era la sua semplicità. Nasce da qui lo Human Development Index (HDI), che rappresenta un modo per sfidare il Pil con un compromesso, ovvero un indice aggregato. Al contrario, moltiplicare gli indicatori come si propone di fare l’Unione europea non ha la potenza di fuoco dell’HDI. 

Il rischio è che diventino strumenti per addetti ai lavori?

Esattamente. Le faccio un esempio concretissimo. Una bellissima operazione nata a Trieste, in quartieri disagiati, che oggi conta 17mila persone e con la quale si è puntato a garantire momenti di socializzazione allo scopo di prevenire le malattie psichiatriche. A un certo momento l’iniziativa si è trovata sotto attacco da parte sia della Regione che del Comune di Trieste. Abbiamo discusso con loro e abbiamo suggerito di fornire un dato, un numero. Ci hanno risposto che si era ridotto drasticamente il numero di morti solitari. Ed era qualcosa di straordinario: morire da soli è una delle cose più terribili che possano capitare. Ecco la potenza di fuoco di un dato, di un numero sintetico.

La finanza oggi è diventata ipertrofica e autoreferenziale. Lo vediamo proprio in questo periodo con gli effetti delle speculazioni sul prezzo del gas. Eppure basterebbe, ad esempio, imporre limiti alle transazioni, o tassarle, per arginare un bel pezzo del problema. Anche qui cosa frena i poteri pubblici? L’incapacità di comprendere i meccanismi?

Queste degenerazioni le abbiamo subite e le subiamo in modo drammatico e si possono ostacolare solo con un’autorità. Quando fu messa in ginocchio la Grecia gli speculatori puntarono sull’Italia, ma a quel punto la BCE capì che era troppo rischioso e Draghi, che all’epoca la presiedeva, pronunciò il famoso “whatever it takes”. Disse ai mercati che i tassi sui titolo di Stato erano folli, irragionevoli, e che per questo la BCE sarebbe intervenuta. Fu la dimostrazione che la speculazione si batte solo con la cooperazione tra soggetti pubblici. L’unica soluzione è massacrare gli speculatori, come accadde nel caso dell’Italia. Oggi però il mondo ha perso gli organismi di cooperazione che aveva costruito nel dopoguerra grazie soprattutto a John Maynard Keynes. 

Il “whatever it takes” indicava però che si era capito che c’era un problema. Perché non si sono poi implementate regole per scongiurare che possa riaccadere?

Torniamo all’incompetenza dei governi. Lo vediamo anche con la Russia: si impongono sanzioni e non ci si preoccupa prima di valutare quali possano essere le conseguenze che ne deriveranno. Non ci si è tutelati, ad esempio, affiancando alle sanzioni un accordo tra i Paesi europei, per sostenersi l’un l’altro. 

Il modello capitalista è d’altra parte marcatamente individualista.

Il capitalismo crea separazioni. Non unisce, separa. Una di queste separazioni è quella del controllo del capitale, da una parte, e della proprietà dello stesso, dall’altra. Il che crea un conflitto: chi è proprietario del capitale vuole rendite, chi lo controlla vuole garanzie. Ma se queste sono troppo cogenti, gli imprenditori sono di fatto impediti nel loro agire. E gli imprenditori devono essere liberi, altrimenti il capitalismo muore. E allora come si risolve questo conflitto? Come si crea un equilibrio tra le garanzie necessarie per evitare che si abusi dei capitali messi a disposizione, senza però che si interferisca troppo con le scelte imprenditoriali? 

Tra i primi 30 anni del dopoguerra e i 40 successivi il neoliberismo ha modificato questo sistema di garanzie. Nei primi tre decenni era lo Stato a mettere a disposizione di straordinari manager i capitali, monitorandoli e giudicandoli attraverso i tribunali (che rappresentavano nuovamente lo Stato). Anche negli Stati Uniti esisteva un organismo apposito che doveva giudicare se i manager avessero agito nell’interesse collettivo degli azionisti. Poi, negli anni Settanta fu demolito: si disse che così i manager non avessero sufficiente libertà. 

E cosa accadde?

Che un gruppo di neoliberisti terrificanti si inventò una “soluzione”: riempire le tasche dei manager di azioni, immaginando che così non avrebbero potuto che fare gli interessi, appunto, degli azionisti. Si puntò ad automatizzare il sistema. Ma era una follia: perché si ancorò il comportamento dei manager prima al bilancio annuale, poi alla trimestrale. Ed così è esplosa la speculazione sul breve e brevissimo termine. Il che dipese anche da un’illusione iper-illuminista di fiducia cieca nella tecnica.

Rimaniamo alle speculazioni sull’energia: che inverno si aspetta e quali conseguenze pensa possano esserci in termini di disuguaglianze e povertà?

Difficile dirlo. L’Europa è stata sull’orlo del baratro diverse volte. Prima che capissero che andava fermato l’attacco speculativo all’Italia c’è stata la tentazione di far saltare tutto, come in Grecia. Poi ci si è spaventati, ma c’è voluto tempo. E anche prima di reagire alla pandemia l’Europa ha avuto 60 giorni di follia, pensando che fosse un problema solo italiano. Insomma, lentamente ma alla fine in altre occasioni si sono mossi. Mi auguro che possano farlo anche in questo caso, con una disarticolazione del prezzo dell’energia da quello del gas, se non prodotta con tale fonte. 

Sulla pandemia la risposta però è costata molto cara.

È vero, al 31 dicembre 2021 i Paesi europei avevano speso 71 miliardi di euro per comprare le dosi da 3-4 colossi che hanno praticato prezzi monopolistici mai visti nella storia del capitalismo. Una vera risposta da parte dell’Unione arriverebbe se si costituisse una grande impresa pubblica europea per la ricerca e lo sviluppo non solo di vaccini ma anche di farmaci. Compresi quelli per le malattie rare e quelli per la resistenza agli antibiotici. Proponendolo, lo abbiamo battezzato il CERN della salute. Per ricordare a tutti che, volendo, progetti di questo tipo esistono e si possono fare. 

Da quella crisi, l’Europa ha proposto di uscire con il Green Deal. Passerà alla storia come un successo o un’occasione persa?

È vero che è una grande operazione straordinaria, ma è uno strumento keynesiano “bastardo”. Si immette spesa e si aumentano i salari, ma anche le rendite. Con il Forum Disuguaglianze Diversità stiamo partecipando ad una grande ricerca europea sugli impatti, e i primi risultati non sono così positivi. Il PNRR italiano, allo stesso modo, non incide sul paradigma. Non ci sono condizionalità sui risultati: ci si è concentrati sugli output, non sugli outcome. Su cosa fare, ma non sulla verifica delle ricadute positive. Nel 2019 partecipammo per il gruppo parlamentare europeo S&D alla stesura di un rapporto intitolato “The Great Shift”: spiegammo che non c’è alcuna normalità alla quale tornare, e proponemmo un cambio di paradigma. Ma torniamo al discorso di prima: l’alternativa culturalmente c’è, ma non sfonda. 

Se fosse ministro dell’Economia quali sono le due prime cose che farebbe?

In primo luogo mi doterei di una struttura tecnica di 15 persone, 10 accademici e 5 da amministrazioni per riprendere il dialogo con le grandi imprese pubbliche come Eni, Snam, Rai, ecc. Perché oggi ci si concentra solamente sui dividenti anziché sugli indirizzi che occorre dare al Paese su macro-temi come energia, comunicazione, infrastrutture. Poi metterei a regime l’Agenzia delle entrate e farei compiere un salto straordinario alla giustizia fiscale, con un reporting sui patrimoni, che è possibile e che darebbe un colpo ferale all’evasione. Assieme ad una riforma del catasto che consenta di far sì che le imposte siano pagate in relazione al reale valore degli immobili. Con queste risorse si potrebbe finanziare una gigantesca iniezione di case popolari, di cui c’è disperatamente bisogno.

E se fosse commissario europeo all’Economia?

Accetterei una revisione significativa dei PNRR, in direzione, come detto, degli outcome più che degli output. E porrei come vincolo un effettivo processo di partecipazione dal basso. Certo, questo potrebbe comportare una dilazione di uno o due anni, ma ne varrebbe la pena. In secondo luogo, mi batterei perché l’Europa si possa dotare di un ministero dell’Economia, assieme ad un sottoinsieme del Parlamento europeo che possa sostenerlo, sulla scorta di quanto teorizzato da Thomas Piketty. 

Chiunque decida, dovrà comunque farlo in un’ottica di sostenibilità. O, meglio ancora, di etica, tenendo insieme le tra gambe dell’ESG. Perché oggi di sostenibilità sembra parlino tutti: si rischia che la parola venga svuotata di significato?

È un rischio concreto. Il punto è sempre legato al conferimento del potere. E agli equilibri di potere. Dobbiamo concedere potere adeguato ai soggetti che risentono delle conseguenze delle azioni economiche. E solo lo Stato può dire se è stato violato un interesse collettivo. Quando in Italia fu fatta, drammaticamente male, la privatizzazione dell’Ilva, si dovevano imporre delle condizionalità ambientali e sociali. Si doveva costituire un Consiglio del lavoro e della cittadinanza. Occorreva rappresentare gli interessi degli uni e degli altri. E oggi avremmo una situazione diversa.