Cos’è e come funziona una “miniera” di criptovalute
Il giornale francese Les Echos ha visitato una “fabbrica” di criptovalute in Cina: 4mila computer, chilometri di cavi e un rumore assordante
Lungo una strada secondaria ai piedi dell’Himalaya, nella provincia cinese di Sichuan, esiste una delle numerose, immense “miniere” che lavorano giorno e notte, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno nella nazione asiatica. Non è segnata sulle carte. Da fuori, risuonano i rumori delle macchine e dei sistemi di climatizzazione necessari per raffreddarle. Quelle macchine, però, non sono scavatrici. Sono computer. E la miniera non è di rame, né di ferro, né di carbone. Qui, al riparo da sguardi indiscreti, si “fabbricano” criptovalute.
«Come provare miliardi di combinazioni di una cassaforte»
A raccontare com’è e come funziona una miniera di criptovalute è stato, di recente, il quotidiano economico francese Les Echos. Quattromila computer impigliati in un groviglio di chilometri di cavi e alcuni tecnici a vigilare se qualche server si trova in difficoltà per lo sforzo eccessivo. Qui infatti la potenza di calcolo è gigantesca, necessaria per convalidare le transazioni e creare blocchi nella blockchain. Il tutto in concorrenza con altre “miniere”.
Tutto si spiega
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«I computer – racconta il giornale transalpino – girano a pieno regime per risolvere problemi di crittografia. È un po’ come se si provassero miliardi di combinazioni di una cassaforte. Il “miner” che ci riesce nel più breve tempo possibile sblocca la serratura e ottiene una ricompensa per aver creato un nuovo blocco». Un “gioco” al quale possono partecipare tutti. Ma la Cina ne ha fatto una vera e propria industria. Da sola, copre i due terzi dell’attività mondiale. E lo fa grazie ad un vantaggio strutturale: la possibilità di usare energia elettrica ad un costo tra i più bassi del mondo. Quella prodotta in Cina, infatti, è poco tassata. E, purtroppo, è in gran parte generata attraverso il carbone.
Molte “fabbriche” di criptovalute sono alimentate dal carbone in Cina
Se si tiene conto del fatto che una fabbrica di criptovalute come quella di Sichuan consuma l’equivalente di 10mila famiglie, si comprende l’entità del problema. In questo caso a fornire energia è soprattutto una centrale idroelettrica, il che ne abbatte notevolmente l’impatto climatico. Ma non sempre è così. Nello Xinjiang, ad esempio, dove si concentra la metà delle “miniere” cinesi, l’elettricità è garantita proprio dalla fonte fossile più nociva in assoluto. Qui non si “coniano” soltanto Bitcoin ma anche altre criptovalute, come l’Ethereum.
Un mercato talmente florido, sottolinea Les Echos, da aver provocato perfino la mancanza di alcune componenti informatiche (alla quale si aggiunge quella di semiconduttori). Inoltre, in termini ambientali, il continuo ricambio di materiali presenta un ulteriore devastante impatto. Quello dei rifiuti elettronici che si moltiplicano, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Troppi blackout: l’Iran vieta il mining per tutta l’estate
Tutto ciò rischia di compromettere gli sforzi del governo di Pechino per centrare gli obiettivi climatici che si è posto. Uno studio dell’università Tsinghua e dell’Accademia delle scienze, pubblicato sulla rivista Nature, afferma che in assenza di azioni concrete il consumo di energia legato al mining di criptovalute quintuplicherà di qui al 2024. Non a caso, l’Iran ha di recente deciso di vietare tali attività sul proprio territorio fino all’autunno. A causa dei troppi blackout causati dall’enorme assorbimento.
Benché non si conoscano le reali ragioni della decisione, qualcosa ai vertici del governo cinese si sta muovendo. Poco dopo la metà di maggio, la Cina ha annunciato la volontà di vietare ai suoi istituti finanziari l’uso di criptovalute. Poiché considerate attività altamente speculative. C’è chi ha ipotizzato che si tratti di una mossa volta a spianare la strada allo yuan digitale, già testato in numerose città dalle autorità di Pechino. Ma anche la questione climatica potrebbe pesare.
In Cina carbone estratto illegalmente per le criptovalute
Secondo quanto riferito da Bloomberg, la Cina avrebbe infatti deciso di agire contro il settore dopo aver compreso il legame tra il boom delle criptovalute e l’impennata di estrazione illegale di carbone dalle miniere. Attività effettuate da alcune aziende produttrici di carbone proprio per rispondere alla domanda del mining. Ciò nonostante, le “miniere”, per ora, restano tollerate. E le decisioni di Pechino si limitano a provocare dei forti scossoni sull’insieme dei mercati delle monete digitali.