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Il bitcoin consuma la stessa energia di 10 milioni di europei

Far funzionare il bitcoin comporta emissioni di CO2 pari a 35 milioni di tonnellate all'anno. Assorbe energia pari a 71,12 terawattora in un anno, più del Cile

Il costo ambientale del bitcoin sale alle stelle © Pixabay

Esiste un “ecosistema virtuale”, nel mondo, che consuma più energia di una nazione come il Cile. E poco meno della Repubblica Ceca, nella quale risiedono più di 10 milioni di abitanti. Senza neppure esistere sulle carte geografiche. Talmente energivoro da assorbire ciò che normalmente fa, in un anno, il 23% dell’intera popolazione italiana. Parliamo del bitcoin, l’ormai celebre criptomoneta nota per la crescita esponenziale sul mercato internazionale. Che rappresenta ormai una vera e propria minaccia per il clima.

Assorbe più di 71,12 tWh all’anno

Se in molti conoscono ormai le performance (e i rischi connessi) della valuta virtuale, in pochi sanno qual è il suo costo ambientale. Per comprenderlo appieno occorre fare però un passo indietro, e capire come funziona la complessa tecnologia che gestisce il sistema-Bitcoin.

A passare ai raggi x il meccanismo è il portale Digiconomist, specializzato in ricerche sulle criptomonete, che ha pubblicato un indice del consumo di energia del bitcoin. Si tratta ovviamente di stime, perché è impossibile conoscere nel dettaglio tutte le cifre. I dati, però, sono semplicemente sbalorditivi: si parla di un assorbimento pari a 71,12 terawattora all’anno. Il che comporta emissioni di CO2 che sfiorano i 35 milioni di tonnellate.

Partiamo, dunque, dalla ragione di questo consumo folle. Il dito degli esperti di Digiconomist è puntato verso il cuore stesso del funzionamento del bitcoin: il sistema “Proof-of-work”. Si tratta di un complesso protocollo studiato anche come deterrente per eventuali cyber-attacchi, basato su un algoritmo che viene utilizzato per confermare le transazioni.

La “zecca” del bitcoin è una bomba ecologica

La “fabbricazione” dei bitcoin non è infatti centralizzata, come accade con le normali valute stampate in ciascuna nazione. Per far funzionare tale “zecca” digitale e condivisa occorre infatti una gigantesca potenza di calcolo. Di qui l’idea di “dividere” il lavoro tra numerose strutture (server farm) sparse nel mondo intero. Ciascuna mette a disposizione i propri computer con l’obiettivo di partecipare ai calcoli imposti dall’algoritmo. Basta infatti iscriversi sulla piattaforma, offrendo di partecipare all’attività, chiamata “mining”. La contropartita – ovviamente – è un pagamento in bitcoin.

bitcoin server
Per poter funzionare, il bitcoin necessita di un’immensa potenza di calcolo, garantita da server sparsi in tutto il mondo. Che in cambio del loro apporto, vengono pagati, appunto, in bitcoin © Torkild Retvedt via Flickr

Così, i server che partecipano al sistema (chiamati “nodi” della rete) si scambiano ogni giorno tra di loro milioni di informazioni. In questo modo, si tiene anche aggiornato il “registro” nel quale è conservata traccia di tutte le transazioni in entrata e in uscita. Ovvero quelle su cui ci si basa per fissare il prezzo della criptomoneta.

Un business estremamente allettante per molti, ma che, appunto, comporta un costo devastante dal punto di vista ambientale. Secondo Digiconomist il bitcoin è responsabile di circa lo 0,12 per cento del consumo mondiale di energia elettrica. Una sola transazione necessita di circa 981 kWh. Per avere un termine di paragone, basti pensare che il circuito di carte di credito Visa consuma 169 kWh per effettuare 100mila transazioni.

“Server farms” ovunque nel mondo (ma soprattutto in Cina)

In altre parole, siamo di fronte ad una bolla finanziaria che ne trascina con sé un’altra energetica. Più il prezzo del bitcoin è elevato, infatti, più fa gola a chi ha voglia di “investire”. Le “server farms”, così, si moltiplicano. E, con esse, i consumi e le emissioni nocive per l’ambiente. Non a caso, le proiezioni indicano un aumento esponenziale per i prossimi mesi. Nel mese di gennaio del 2019 si prevede di arrivare a quasi 125 terawattora.

Un “conto” catastrofico, aggravato dal fatto che la maggior parte di chi si è lanciato nel sistema risulta residente in Cina. Nelle aree rurali della nazione asiatica l’energia costa infatti molto poco, il che rende il business ancor più allettante. Peccato che buona parte dell’energia elettrica cinese sia ancora prodotta grazie al carbone. A tutto svantaggio, ancora una volta, dell’ambiente.