Non è un Paese per donne. Italia, patria del gender gap
L'Italia in tre anni è passata dal 41° all'82° posto nella classifica mondiale. Pesa l'assenza di servizi familiari che si ripercuote sui tassi di occupazione femminile
Le donne italiane non stanno troppo bene, né di salute, né finanziariamente. E la nostra economia ne risente. Se, secondo il World Economic Forum, la parità di genere è strettamente correlata al prosperare delle economie e delle società, la classifica internazionale sul Gender Gap Index 2017 ci vede sempre più in basso.
Un crollo anno dopo anno
Il divario tra uomini e donne, in Italia, secondo il Wef, è in caduta libera: dal 41esimo posto fatto segnare nel 2015 , siamo passati al 50esimo nel 2016, fino piombare all’82 esimo nel 2017.
Terzultimi in Europa (dopo di noi Cipro e Malta) e preceduti da Grecia, Lussemburgo e Austria. Ben distanti dai modelli dei paesi nordici, ma anche dalla Francia, all’11esimo posto e dalla Germania, al 12esimo.
Gli indicatori economici e di salute elaborati del Gender Gap Index parlano chiaro. La differenza di possibilità tra uomini e donne su partecipazione e opportunità economiche, porta l’Italia in coda alla classifica: al 118esimo posto su 144 nazioni esaminate. Tra le principali cause il calo dell’uguaglianza salariale e la diminuizione delle donne in ruoli ministeriali. E scendiamo ancora più giù, al 123esimo posto, se si analizzano le condizioni di salute e i tassi di mortalità.
Leggi fatte, ma rimaste lettera morta
Il divario di genere si allarga così, secondo il Wef, oltre il 30%. È per la prima volta dal 2014. Una situazione inaccettabile perché dal 2006 l’Italia ha dovuto recepire, tramite il decreto legislativo 198, una direttiva europea su pari opportunità e pari trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione. L’ennesima norma rimasta lettera morta nel Paese reale.
Che il problema non sia solo nelle norme lo dimostra il gap che ci divide dalla lontanissima Islanda, capolista del Gender Gap Index: lì la parità è una realtà consolidata. Eppure la legge per la parità di stipendio tra uomo e donna è stata introdotta solo l’anno scorso.
Ma quali sono le cause che impediscono il benessere delle donne italiane? Secondo l’indagine conoscitiva sulle politiche in materia di parità, presentata dal presidente dell’ISTAT, Giorgio Alleva alla Commissione Pari Opportunità esattamente un anno fa, i dati confermano che, nonostante titoli di studio più alti costituiscano una maggiore garanzia di accesso al mondo del lavoro, sono ancora molto bassi i tassi di occupazione delle donne italiane.
Per le donne carriere discontinue e salari più bassi
«Una delle determinanti di questo risultato risiede nella bassa condivisione tra i componenti della famiglia della gestione dei tempi di lavoro e cura. Per le donne che partecipano al mondo del lavoro si profilano pertanto carriere più discontinue e retribuzioni più basse riconducibili alle minori possibilità di accesso alle figure apicali» ha ribadito Alleva. «Queste disparità comportano a loro volta più difficili condizioni economiche, soprattutto per le madri single. E i livelli delle prestazioni pensionistiche sono sistematicamente più bassi».
Nidi e servizi alle famiglie, però, sono anch’essi ridotti ai minimi termini, come ricordato ancora dall’Istat in una recente analisi. I posti disponibili, in tutto 357.786, coprono solo il 22,8% del potenziale bacino di utenza (i bambini sotto i tre anni residenti in Italia).
Pochi servizi, meno donne al lavoro
La mancanza di strutture e il loro costo è causa di una situazione inaccettabile, come ha denunciato il report dell’Istituto degli Innocenti di Firenze realizzato per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri: appena un bambino su 4, nella fascia tra zero e due anni di età, ha la possibilità di accedere a un posto in un nido d’infanzia, pubblico o privato che sia. Il restante 75% è destinato, pur controvoglia, a rimanere a casa.
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Le ricadute negative sull’economia sono nette: quasi una donna su 5 nel 2016 ha motivato la propria assenza dal lavoro, o la presenza solo part-time, con la carenza di infrastrutture in grado di tenere i propri figli durante il tempo di lavoro. Motivi che concorrono al minore accesso alle figure apicali, alla maggiore diffusione di lavori part-time e carriere discontinue determinanti, assieme ad una diversa struttura per età, dei differenziali di genere nei redditi percepiti.
Più istruzione, meno differenze uomo/donna
Sempre secondo Istat, in Italia, nel 2015, solo il 43,3% delle donne ha percepito un reddito da lavoro (dipendente o autonomo) rispetto al 62% dei maschi. Questa quota è ancora più bassa al sud (34,2%) e il divario con gli uomini più alto (24,5). Mentre un alto livello di istruzione riduce in modo significativo le differenze: è destinatario di un reddito dipendente il 76,8% delle donne laureate e l’81,5% dei maschi. Eppure qualunque siano le caratteristiche considerate, il divario tra uomini e donne è rimasto sostanzialmente stabile dal 2008.
Casalinghe, il 10% è in povertà assoluta
Ma per le donne tricolori I record negativi non sono finiti:: il numero medio di ore di lavoro non retribuito svolte in un anno è pari a 2.539 per le casalinghe, 1.507 per le occupate e 826 per gli uomini (considerando sia quelli occupati, sia quelli non occupati). E tra gli oltre 7,3 milioni di donne che si dichiarano casalinghe nel nostro Paese, nel 2015 sono state più di 700mila quelle in povertà assoluta, il 9,3% del totale. Eppure le casalinghe, con 20 miliardi e 349 milioni di ore, sono i soggetti che contribuiscono maggiormente alla produzione di lavoro familiare.
«Il lavoro delle donne in Italia continua ad essere caratterizzato da segregazione occupazionale, impieghi poco qualificati, employment gap, sottoccupazione. Record negativi che allontanano ulteriormente il nostro mercato del lavoro dai livelli degli altri Paesi europei». aveva dichiarato la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti, alla presentazione del rapporto della Fondazione Giuseppe Di Vittorio l’8 marzo scorso.
Oltre a un indubbio problema di quantità dell’occupazione femminile, c’è anche un problema di qualità dell’occupazione. Nel 2016, l’80% dei dipendenti uomini è, contemporaneamente, a full-time e a tempo indeterminato. Per le donne la percentuale scende al 57%. Più di venti punti percentuali sotto.
Nel gap occupazionale italiano molto incide, poi, la questione meridionale, che, in termini di mercato del lavoro, è particolarmente una questione femminile. Lo scarto tra i tassi di occupazione di genere nel Mezzogiorno sfiora il 25%, contro il 14-15% medio nel Centro-Nord.