Nucleare, per smantellare le vecchie centrali francesi ci vorrà circa un secolo
Un cantiere che costerà almeno 46 miliardi di euro. Così la Francia dirà addio al parco nucleare degli anni Ottanta e Novanta
Più di 46 miliardi di euro di costi e circa un secolo di lavori. Lo smantellamento delle vecchie centrali nucleari in Francia, a cominciare da quelle entrate in funzione negli anni Ottanta, si annuncia come un progetto faraonico. A spiegarlo è un rapporto commissionato dal Senato di Parigi alla Corte dei Conti. Proprio con l’obiettivo di comprendere i tempi e gli esborsi che dovranno affrontare le casse pubbliche per portare a termine gli smantellamenti.
La juridiction financière publie un rapport qui critique le manque d'anticipation de l'arrêt des centrales nucléaires, dont celle de Fessenheim. https://t.co/1WGdEDT7sP @michelrevol
— Le Point (@LePoint) March 6, 2020
A pagare saranno quasi solo i contribuenti francesi
Casse pubbliche, sì, perché la stragrande maggioranza di tali immensi costi (46,4 miliardi di euro, per l’esattezza) graverà sui contribuenti. Le fatture saranno, infatti, pagate da parte della società elettrica EDF, della compagnia specializzata nel nucleare Orano (ex Areva) e del Commissariato all’energia atomica (CEA). Tutte di proprietà, in tutto o in parte, dello Stato francese.
Il documento è stato pubblicato il 4 marzo. Secondo la Corte dei Conti occorre avviare le operazioni di chiusura «nel più breve tempo possibile» e «a condizioni economicamente accettabili». Ciò in ragione dell’immensità del lavoro da effettuare. Eppure, la Francia non sembra avere intenzione di rinunciare al nucleare. Al contrario, una serie di nuovi reattori EPR (di terza generazione) è stata costruita, o è in costruzione, nel mondo. Due in particolare hanno subito ritardi clamorosi e impennate dei costi del tutto insostenibili.
Ritardi e i costi alle stelle per i reattori EPR
Il caso più eclatante è quello di Olkiluoto, in Finlandia, dove Orano costruisce dal 2005 un reattore che, secondo le stime iniziali, sarebbe dovuto entrare in funzione nel 2009. Più di un decennio più tardi, il taglio del nastro non è ancora arrivato. L’azienda transalpina, inoltre, ha già previsto perdite per 3,9 miliardi di euro. Un dato più alto del prezzo di vendita del reattore, fissato a 3 miliardi.
Réacteur EPR: où en sont les 4 chantiers?
– Taishan (🇨🇳), mis en service en 2018 (5 ans de retard)
– Olkiluoto (🇫🇮), mise en service prévue en 2020 (11 ans de retard)
– Flamanville (🇫🇷), prévue en 2022 (10 ans de retard)
– Hinkley Point (🇬🇧), prévue en 2025 (qqs mois de retard) pic.twitter.com/XlRy0q0CNK— Pierre Kupferman (@PierreKupferman) October 9, 2019
Un altro reattore EPR è in costruzione a Flamanville, sulla Manica. Anche qui con un susseguirsi di ritardi e di aumenti dei costi, derivanti principalmente dalle osservazioni dell’Autorità per la Sicurezza Nucleare francese.
A ciò si aggiungono, appunto, le «derive» dei costi per gli smantellamenti: «Tra il 2013 e il 2018 – ha scritto la Corte dei Conti – i preventivi sono quasi raddoppiati per EDF, aumentati di oltre il 25% per il CEA e altrettanto per Orano». Il che significa rispettivamente +4,5, +3,2 e +1 miliardi. Per almeno sei reattori, tra l’altro, la fine dello smantellamento è già stata procrastinata. All’inizio del Ventiduesimo secolo.
EDF da tempo tenta di gettare acqua sul fuoco, spiegando che i costi saranno limitati grazie alla standardizzazione del parco nucleare francese. Ovvero al fatto che i reattori attuali sono stato costruiti tutti sulla base dello stesso modello. Un ottimismo che tuttavia la Corte dei Conti ha mostrato di non condividere: «Le valutazioni attuali meriterebbero di essere ancora più prudenti. EDF e Orano hanno infatti escluso una serie di voci dalle loro previsioni».
Il «regalo» dello Stato a EDF per la chiusura della centrale nucleare di Fessenheim
Inoltre, i magistrati contabili francesi hanno manifestato preoccupazioni in merito al calendario dei lavori. Esso infatti non sembra essere sostenuto da un impegno sufficiente da parte dei poteri pubblici. Un esempio: la commissione incaricata di valutare i costi di smantellamento ha pubblicato un rapporto nel 2012. Da allora, non si è più riunita.
L’alerte de la Cour des comptes sur les coûts du démantèlement des centrales nucléaires https://t.co/XhOP6NcrnF
— Le Monde Planète (@lemonde_planete) March 4, 2020
La Corte dei Conti si è quindi concentrata sugli indennizzi che saranno concessi a EDF per la chiusura della vecchissima centrale nucleare di Fessenheim. Innanzitutto, è stato denunciato il «processo decisionale caotico» che è stato avviato dal presidente François Hollande nel 2012 e che si è concluso con il documento pubblicato il 22 febbraio 2020 dal governo di Edouard Philippe. La magistratura contabile di Parigi ha sottolineato come il protocollo preveda due voci di indennizzo. La prima legata alle spese necessarie per lo smantellamento. La seconda per i mancati guadagni.
Mancanze e imprecisioni nel protocollo su Fessenheim
Ebbene, il rapporto indica che il totale concesso sotto la presidenza di Emmanuel Macron – che non sarà inferiore a 370 milioni di euro – è «favorevole all’impresa». E, di conseguenza, «fa pesare un rischio finanziario» sulle spalle dello Stato, che non ha saputo far valere i propri interessi. Gli indennizzi saranno infatti concessi fino al 2041, benché EDF stessa abbia già previsto di chiudere le centrali vecchie di più di 50 anni (Fessenheim fu inaugurata nel 1978).
Centrale nucléaire de Fessenheim: la Cour des comptes met en garde contre le coût de sa fermeture https://t.co/Tebxd8FCPM pic.twitter.com/Vep0bbAbKE
— BFM Business (@bfmbusiness) March 4, 2020
Al contrario, lo Stato continuerà a pagare EDF fino alla sesta visita decennale. «La parte di indennizzo che va al di là della quinta visita, prevista nel 2031, appare difficilmente giustificabile», osserva la Corte dei Conti. Secondo la quale altre disposizioni contenute nell’accordo su Fessenheim sono «imprecise o mancanti». E perciò suscettibili di portare ad «un rischio di interpretazioni divergenti tra lo Stato e l’azienda». Il rischio è che i 46,4 miliardi possano dunque non bastare.