Dieci anni dopo la tragedia del Rana Plaza, cos’è cambiato?
Sono passati dieci anni dal disastro del Rana Plaza, il peggiore nella storia dell'industria tessile. Ma molti problemi restano irrisolti
Erano le 8:57 di mattina del 24 aprile 2013 quando, nel giro di qualche secondo, crollò il Rana Plaza. L’edificio di nove piani, situato alla periferia di Dacca, in Bangladesh, ospitava sei fabbriche di abbigliamento per grandi marchi occidentali. Il crollo uccise 1.134 lavoratori e ne ferì gravemente 2.500 e, ancora oggi, rimane una tra le peggiori catastrofi industriali della storia.
Nelle settimane successive, mentre i soccorritori estraevano i feriti dalle macerie, le immagini del Rana Plaza come colpito da un terremoto o da un bombardamento fecero il giro del mondo. Molti dei marchi i cui prodotti vennero trovati tra i resti, tra cui l’italiana Benetton, negarono il proprio coinvolgimento, dichiarando che non erano a conoscenza di avere attività produttive nell’edificio. Da quel momento in poi, però, i consumatori di tutto il mondo hanno iniziato a riflettere su dove – e come – venissero prodotti i loro vestiti.
Una nuova consapevolezza dopo la tragedia del Rana Plaza
«La tragedia del Rana Plaza ha portato all’attenzione del mondo intero la questione dei diritti dei lavoratori nell’industria dell’abbigliamento in Bangladesh, e in generale nelle catene di valore globali», afferma Dorothee Baumann-Pauly, ricercatrice della New York University (NYU) che ha approfondito il tema. Baumann-Pauly spiega che dalla disgrazia emerse quanto poco le grandi multinazionali di abbigliamento fossero a conoscenza delle condizioni di lavoro e sicurezza nelle fabbriche in Bangladesh. E, più in generale, quanto poco controllassero le loro filiere produttive nei Paesi in via di sviluppo. Questo causò una forte indignazione nell’opinione pubblica, minacciando la reputazione e i profitti dell’intera industria.
All’indomani del disastro, sotto gli occhi di tutto il mondo, oltre 200 grandi marchi firmarono quindi l’Accordo per la sicurezza strutturale e antincendio degli edifici del Bangladesh. Questo accordo, che prevedeva tra le altre misure ispezioni in fabbrica e interventi di manutenzione degli edifici, alimentò la speranza di un cambiamento radicale nell’industria della moda. Tuttavia, dieci anni dopo, molti problemi rimangono.
Le condizioni di lavoro nelle fabbriche tessili del Bangladesh
«In questi dieci anni, la sicurezza nelle fabbriche tessili del Bangladesh è migliorata», dice Baumann-Pauly, «ma le condizioni di lavoro sono ancora critiche: i salari sono estremamente bassi e gli orari di lavoro pesanti». Questo perché non sono cambiate le dinamiche economiche della filiera tessile. «La causa ultima della tragedia del Rana Plaza va ricercata nella spinta a ridurre costantemente i costi e i tempi di produzione, il che si traduce inevitabilmente in una forte pressione sugli operai e in condizioni di lavoro precarie».
In Bangladesh, la paga mensile minima di un operaio tessile è di soli 8.000 taka, ovvero 68 euro. Questa cifra, spiega Baumann-Pauly, è insufficiente per garantire il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie, soprattutto in questo momento in cui il Paese registra una forte crescita dell’inflazione. Il salario necessario per la sussistenza in
Bangladesh è infatti stimato a 23.254 takka, 200 euro. Spesso gli operai vengono maltrattati e costretti a turni di lavoro estenuanti, le molestie verso le donne sono frequenti e la mancanza di contratti regolari compromette i diritti dei lavoratori – come denunciato da Human Rights Watch. Inoltre, le catene di produzione rimangono opache e le pratiche di subappalto diffuse, limitando ulteriormente il controllo da parte delle multinazionali.
Nonostante i salari miseri e le pessime condizioni lavorative, in Bangladesh la manodopera disponibile resta numerosa: il settore tessile è infatti un pilastro dell’economia nazionale. L’abbigliamento rappresenta l’80% delle esportazioni, secondo l’Ufficio di Promozione delle Esportazioni del Bangladesh, e oltre il 50% dell’occupazione manifatturiera totale. Il Paese è quindi dipendente dalle multinazionali e restio a imporre regolamentazioni troppo stringenti.
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Non solo Bangladesh: serve un vero consumo critico
Lo sfruttamento dei lavoratori per il guadagno di grandi aziende non è una realtà solo in Bangladesh. Per esempio, l’Etiopia è diventata un’altra meta ambita dai marchi di abbigliamento in cerca di costi di produzione sempre più bassi. Lì la paga mensile minima per un operaio tessile è di soli 24 euro, a fronte di un salario di sussistenza stimato a 100 euro. E il settore della moda è lungi dall’essere l’unico in cui le condizioni di lavoro sono preoccupanti. La corsa al ribasso delle multinazionali è un problema che interessa l’intera organizzazione economica globale.
«Un aspetto promettente è che la consapevolezza dei consumatori è in continuo aumento», conclude Baumann-Pauly. Rispetto al disastro del Rana Plaza di dieci anni fa, molte più persone sono a conoscenza dei problemi che si celano dietro ai loro vestiti. Questa consapevolezza, però, deve riuscire a concretizzarsi in un consumo responsabile che spinga i produttori verso un nuovo paradigma.