Rana Plaza, cosa serve ancora per tutelare i lavoratori del tessile
Cruciale nella battaglia per rendere socialmente sostenibile la filiera del tessile è l'estensione dell'Accordo firmato da 195 marchi
Cosa è cambiato nei dieci anni trascorsi dal crollo dell’edificio Rana Plaza nell’aprile 2013? È una domanda molto sentita in questo mese che segna un decennio dalla tragedia. Nel tentativo di dare una risposta sfumata a questa domanda, una nuova cronologia ragionata degli eventi, lanciata oggi, elenca i principali sviluppi con riferimento alla salute e sicurezza dei lavoratori, ai salari, alla libertà di associazione, e ai risarcimenti.
La cronologia mostra che la lotta per i diritti sul lavoro era viva ben prima del crollo del Rana Plaza: se le richieste dei sindacati fossero state ascoltate prima, il disastro avrebbe potuto essere evitato. Il recente incendio di una fabbrica in Pakistan dimostra che l’attenzione alla sicurezza nelle fabbriche è necessaria e urgente.
La timeline fa parte del sito web ranaplazaneveragain.org, lanciato per la prima volta nel 2020 per commemorare in sicurezza l’anniversario del Rana Plaza a causa dei limiti imposti dalle misure pandemiche. Da allora, il sito web ha permesso a persone di tutto il mondo di mostrare la propria solidarietà ai lavoratori dell’abbigliamento in Bangladesh. È sostenuto dai sindacati dei lavoratori dell’abbigliamento in Bangladesh e dalla rete della Campagna Abiti Puliti.
Solo gli accordi vincolanti rendono sicure le fabbriche
Una chiara conclusione che emerge dalla cronologia è che negli ultimi anni l’unico campo in cui sono stati compiuti progressi considerevoli e duraturi, sebbene ottenuti con tenacia, è quello della salute e della sicurezza dei lavoratori. La ragione evidente è che solo in questo campo i marchi dell’abbigliamento hanno definito la nuova direzione professata dopo la tragedia in un accordo vincolante. L’Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento è la terza versione di questo accordo ed è stato firmato da 195 marchi di abbigliamento.
Per il decimo anniversario del devastante crollo che ha causato la morte di almeno 1.138 persone, la rete globale della Clean Clothes Campaign e l’organizzazione statunitense Remake hanno avviato una petizione gestita dalla piattaforma Eko rivolta a quelli che noi chiamiamo la “sporca dozzina” di marchi, come Levi’s, IKEA e Amazon, che non hanno firmato questo accordo salvavita negli ultimi dieci anni. Serve un appoggio convinto a questo accordo anche da parte anche dei marchi che sono già firmatari: l’Accordo scade fra sei mesi e va rinnovato con almeno le stesse caratteristiche di natura vincolante, trasparenza. e obbligo per il marchio di assicurare la fattibilità dei rimedi dal punto di vista finanziario.
Amin Amirul Haque, segretario generale della National Garment Workers Federation, ha dichiarato: «Dopo il Rana Plaza, grazie all’Accordo, le condizioni di sicurezza nelle fabbriche di abbigliamento sono migliorate rispetto a prima del crollo, ma questo progresso deve continuare». Deborah Lucchetti, della Campagna Abiti Puliti, ha sottolineato inoltre l’importanza che le istituzioni pubbliche deputate alla sensibilizzazione delle imprese in materia di diritti umani e condotta responsabile come i Punto di contatto nazionali Ocse, promuovano l’Accordo Internazionale, affinché sempre più imprese italiane operanti all’estero vi aderiscano, come ribadito lo scorso 20 aprile durante il convegno “Mai più Rana Plaza” organizzato a Roma con Cgil-Cisl-Uil. Invito raccolto dal direttore generale del ministero delle Imprese e del Made in Italy Maurizio Montemagno, presente all’iniziativa.
Anche altri Paesi devono essere resi sicuri
Quest’anno è cruciale anche perché è il primo anno in cui l’Accordo verrà esteso oltre il Bangladesh. Dopo molti anni in cui i sindacati e le Ong pakistane hanno sollecitato l’applicazione dell’Accordo alle loro fabbriche, il programma sta per iniziare in Pakistan. L’Accordo per il Pakistan, annunciato quattro mesi fa e firmato da 45 marchi, sta iniziando l’implementazione, ma il processo è lento. I marchi e i rivenditori devono accelerare le operazioni: chi ne sta pagando le conseguenze sono i lavoratori.
Lo scorso 12 aprile un incendio di vaste proporzioni in una fabbrica tessile di Karachi, in Pakistan, ha provocato il crollo dell’edificio, causando la morte di quattro vigili del fuoco e il ferimento di altri 13. Questa fabbrica riforniva diversi marchi internazionali, dimostrando ancora una volta che i controlli sulla sicurezza condotti dai marchi stessi sono inadeguati. Nella fabbrica sono stati rinvenuti materiali da imballaggio e prodotti della catena di supermercati francese Auchan, nonché etichette di Dunnes Home e Hampton by Hilton. Nessuno di questi marchi ha firmato l’Accordo del Pakistan sulla salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento. Tutti e tre, così come qualsiasi altro marchio che potrebbe essere identificato in futuro, dovrebbero aderire immediatamente, e fornire pieno supporto all’indagine conseguente. Auchan ha firmato gli Accordi del 2013 e del 2018, ma non ha firmato l’Accordo internazionale del 2021 né l’Accordo del Pakistan. Auchan era uno dei marchi i cui prodotti venivano fabbricati nell’edificio di Rana Plaza e dovrebbe quindi essere ben consapevole dell’importanza di presidiare con efficacia la sicurezza in fabbrica.
I media, i lavoratori e le autorità locali riferiscono che la sede, che in precedenza si chiamava Sohail Weaving, è ora di proprietà di Usman and Sons, che non ne fa menzione sul proprio sito web. Tra i marchi che si riforniscono da Usman and Sons ci sono il discount tedesco Aldi South e il rivenditore statunitense Exist. Aldi South dovrebbe ispezionare tutti i suoi oltre 50 fornitori di abbigliamento in Pakistan appellandosi all’Accordo e in conformità con gli standard di sicurezza dell’Accordo stesso, per evitare ulteriori incidenti mortali. Exist non ha firmato l’Accordo per il Pakistan e dovrebbe farlo subito.
Tutti i marchi che si riforniscono da questa azienda dovrebbero garantire un risarcimento pieno ed equo alle famiglie in lutto e ai vigili del fuoco feriti, oltre a coprire le spese mediche per questi ultimi. Ineke Zeldenrust, coordinatrice internazionale della Clean Clothes Campaign ha osservato che «questo incendio deve essere un campanello d’allarme per tutti, a cominciare dai marchi che si riforniscono in Pakistan, i datori di lavoro pakistani, il governo pakistano e i governi dei Paesi in cui i marchi collegati hanno la loro sede centrale: non c’è spazio per l’autocompiacimento dopo la firma dell’Accordo del Pakistan. È necessario iniziare immediatamente a lavorare per rendere sicure le fabbriche».
L’importanza di estendere l’Accordo
L’estensione dell’Accordo a paesi diversi dal Bangladesh e dal Pakistan non dovrebbe richiedere altri dieci anni. La necessità di una espansione ulteriore è dimostrata dal tracciatore degli incidenti di fabbrica recentemente aggiornato da Clean Clothes Campaign, che mostra la punta dell’iceberg degli incidenti mortali e quasi mortali nelle fabbriche di tessuti, indumenti e affini nei Paesi non ancora coperti dall’Accordo.
«Lavoriamo fianco a fianco – ha dichiarato Kalpona Akter, presidente della Federazione dei lavoratori dell’abbigliamento e dell’industria del Bangladesh – per garantire che questi miglioramenti vadano ovunque dove le nostre sorelle e i nostri fratelli che lavorano nelle fabbriche non sono al sicuro. L’Accordo è ora in Pakistan, e lavoreremo per portarlo in Sri Lanka, India, Marocco, Mauritius. In ogni luogo possibile dove i nostri lavoratori non sono al sicuro».