Bufera riciclaggio: si stringe la morsa attorno a Danske Bank

Due inchieste negli Usa. Ma anche le indagini italiane, danesi, estoni e francesi. Lo scandalo Danske Bank invade i tribunali di tutto il mondo

Matteo Cavallito
Una sede di Danske Bank a Copenhagen © Jimmy Baikovicius/Flickr
Matteo Cavallito
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Danske Bank è sotto assedio. Ormai è una certezza. E la vastità dei procedimenti rende bene l’idea della dimensione internazionale dello scandalo. L’accusa è gravissima: maxi riciclaggio di denaro a favore della clientela russa. Detto in altri termini: 200 miliardi di euro di transazioni sospette condotte tra il 2007 e il 2015 attraverso la propria filiale estone. Se le imputazioni dovessero essere confermate dalle sentenze, si tratterebbe della più grande operazione di riciclaggio di sempre.

Danske, Russia e sospetto riciclaggio

I dettagli ancora da chiarire certamente non mancano. Ma gli ingredienti sul tavolo fanno già impressione. Dagli oligarchi alle società offshore, passando per i paradisi fiscali e l’Azerbaijan. Sullo sfondo ci sono addirittura i familiari di Vladimir Putin, e ogni commento appare quasi superfluo. Aggiungiamo la cronaca nera e il gioco è fatto. Non stupisce che in molti vogliano vederci chiaro: ultima in ordine di tempo la SEC statunitense che a novembre ha dato il via a un’indagine. È la seconda inchiesta americana aperta contro l’istituto dopo quella avviata ad ottobre dal Dipartimento di giustizia.

Quegli avvertimenti caduti nel vuoto

Lo scandalo che ha “scioccato” la Danimarca ha radici lontane. La vicenda inizia nel 2007 quando la prima banca danese acquisisce la filiale estone dell’istituto finlandese Sampo Bank. Qualcosa però non torna: sia gli operatori di Tallin che la Banca centrale russa esprimono i propri timori sulla provenienza dei capitali della clientela. Ma gli allarmi cadono nel vuoto. Nel 2013 è la volta di JPMorgan, la banca deputata a gestire le transazioni in dollari nella filiale. I sospetti sono troppo forti, meglio interrompere la collaborazione con Danske. Infine arrivano le gole profonde ma per il momento nulla cambia. Per la banca danese è sempre business as usual. Perché?

Lo strano bilancio estone: 10% dei profitti totali ma solo lo 0,5% delle attività di Danske

La risposta implicita la offre forse il rapporto redatto dallo studio legale Bruun & Hjejle. Secondo la relazione, diffusa nel settembre 2018, la filiale di Tallinn avrebbe contribuito da sola ad almeno il 10% dei profitti totali registrati da Danske tra il 2008 e il 2011. Una quota enorme a fronte di attività totali pari allo 0,5% degli asset del gruppo. Sospetti a parte c’è un dato di fatto: le operazioni sui conti estoni dei non residenti saranno chiuse soltanto nel dicembre del 2015. Thomas Borgen, direttore delle attività baltiche di Danske, si dimetterà solo nel settembre del 2018. Nel 2013, è bene ricordarlo, era stato nominato Ceo dell’istituto. Non male.

Indaga anche la Procura di Milano

Danske, ad oggi, è indagata in Italia dove la Procura di Milano ha già presentato le sue rogatorie. L’obiettivo delle istanze è semplice: capire chi siano i beneficiari effettivi dei conti baltici nei quali è transitato il denaro. Per ora, infatti, non se ne sa nulla. Anche se un quadro più preciso inizia ad emergere. Nel novembre dello scorso anno, Howard Wilkinson, l’ex direttore della divisione market trading per il Baltico di Danske, ha testimoniato davanti a una commissione parlamentare di Copenhagen. Wilkinson, cittadino britannico, indicato da molti come la gola profonda che ha portato alla luce lo scandalo, non ha fatto nomi, dipingendo però uno sfondo non banale.

«Due grandi istituti USA. Una grande banca europea»

In sintesi, riferisce Money Laundering Watch, un blog di settore legato alla società legale Ballard Spahr di Philadelphia, sarebbe accaduto più o meno questo: i clienti stranieri di Danske – ovvero società britanniche e società fantasma domiciliate nelle repubbliche ex sovietiche e legate ad autorità di Mosca – avrebbero fatto transitare il denaro in Estonia attraverso quattro istituti russi. Di lì i fondi avrebbero preso la strada di almeno tre banche: «due grandi istituti USA» e la filiale americana di «un grande istituto europeo». È l’ultima fase del ciclo del lavaggio: una volta ripulito, il denaro sarebbe stato reinvestito nel sistema finanziario globale.

Le altre inchieste

Indagini di vario tipo sono aperte in Danimarca, Estonia, Francia e Svezia. Le autorità di Tallin hanno già sequestrato oltre 1,14 milioni di dollari di asset collegati in qualche modo agli ex dipendenti della banca. Nella bufera, nel frattempo, ci è finita anche Swedbank: un’inchiesta della TV locale ha infatti rivelato come almeno 4,3 miliardi di dollari siano transitati dall’istituto svedese a Danske e viceversa tra il 2007 e il 2015. E forse la cifra è calcolata per difetto. Pochi giorni fa, i miliardi nel mirino sono arrivati in doppia cifra. E non è tutto.

L’autorità bancaria europea ha aperto un’inchiesta mentre dall’altra parte dell’oceano gli investitori hanno iniziato a muoversi. A gennaio un fondo pensione americano ha denunciato la banca danese. La richiesta è stata presentata a carico dell’ex Ceo Thomas Borgen, dell’ex presidente Ole Andersen e di altri due ex dirigenti.